“M2 ” - DYNAMIS. Intervista ad Andrea De Magistris

di
Condividi
04 febbraio 2019
A Carrozzerie n.o.t. la compagnia Dynamis porta in scena “M2 ” una performance che coinvolge gli spettatori rendendoli partecipanti attivi dello spettacolo che prende l’unità di misura a campione per parlare di confini. Ne parlo con Andrea De Magistris, regista della compagnia. Prima di entrare nel vivo dello spettacolo facciamo un passo indietro, ricordiamo come nasce Dynamis e come si è evoluto il percorso della compagnia, come si è trasformata la vostra visione fino ad oggi? Dynamis nasce circa otto anni fa, quando il Teatro Vascello ospitò uno dei nostri primi lavori. Giancarlo Nanni, l’allora direttore artistico, prematuramente scomparso, aveva trovato interessante la genesi di un nostro lavoro, e da lì l’amministrazione e la direzione tecnica, nella persona di Marco Ciuti, ci ha dato una grande possibilità. Ricordo che ci disse: “Il Teatro Vascello potrebbe diventare la vostra nuova casa”. Da lì è nato un rapporto di forte collaborazione. Puntiamo molto sul dialogo, anche all’interno della compagnia, al cui interno i ruoli, solitamente non comunicanti tra loro, si sono sviluppati in modo interconnesso. Per noi è molto importante essere investiti di ogni fase del processo creativo: da quella logistica, a quella amministrativa, sperimentali, di ricerca. I nostri laboratori si chiamano "laboratori di ricerca”, perché ci sentiamo come degli scienziati, che studiamo come dei ricercatori la nostra materia che sono il teatro e le arti performative. Il Teatro Vascello ci ha dato la possibilità di avere un laboratorio aperto, è diventato il nostro quartier generale, ci vengono concesse le condizioni per poter ricercare e studiare e negli anni abbiamo solidificato un rapporto di fiducia. Il rischio, all’inizio di un percorso, è sempre quello di rimanere isolati, di diventare una cellula distaccata che un teatro potrebbe sfruttare e si resta separati, invece abbiamo lavorato molto sulla connessione tra il teatro e l’umanità delle persone che lo compongono, che hanno permesso a noi di fare il lavoro che stiamo facendo ora. Il gruppo è un gruppo potenziamenti infinito, perché accoglie tutti coloro che si prendono la responsabilità di portare avanti questo percorso. Ovviamente c’è uno “zoccolo duro”, che è un po’ l’ossatura di Dynamis. Spesso ci chiedono “ma quanti siete? Non si capisce, siete come una massa multiforme che si muove”. Di solito ciò che ci contraddistingue è proprio il gruppo aperto. Se ci sono dei progetti che coinvolgono anche altri operatori, altri ruoli, cerchiamo di aprirci, non restare, dunque isolati, ma sempre aperti a nuove connessioni e rapporti. Le prime idee su “M2” sono iniziate tre anni fa da una riflessione sui casi di naufragio nel Mediterraneo, un tema che continua purtroppo ad essere ancora in prima pagina. Portandoci dietro le quinte, da dove sono nate l'intuizione e l'urgenza, com’è stato pensato il processo creativo? Il progetto di “M2” è in vita da tre anni e lo spettacolo andato in scena in questi giorni a Carrozzerie n.o.t è reduce da un anno di residenze, tra Pergine Festival, Tenuta Dello Scompiglio, Off Off Theatre, Altofest – International Contemporary Live Art, Armunia-Castiglioncello, Angelo Mai. In questo anno di residenza abbiamo avuto un dispositivo nato nel decennale di una ONLUS che si chiama Asinitas, che si occupa di insegnamento della lingua italiana per i migranti. Tre anni fa, quando abbiamo iniziato a immaginarlo, non era ancora così urgente il tema, come oggi. Nelle ultime fasi del percorso di creazione abbiamo voluto paradossalmente distaccarci dalla retorica del tema attuale. E nell’ultima parte dello spettacolo facciamo riferimento al tema dell’occupazione di uno spazio, in generale, e non solo alla condizione dei migranti e al fenomeno dei barconi che attraversano il Mediterraneo, per separarci dalla retorica dell’attenzione all’attualità, che ci piace di meno. Quello che ci interessava maggiormente era analizzare la condizione in cui viene messo il pubblico, e i partecipanti. Facciamo un po’ il verso al teatro partecipato, anche se è una definizione molto inflazionata e rischia di creare confusioni rispetto al nostro lavoro. Il nostro è un “esperimento”, con sette “cavie”, dove indaghiamo non tanto la partecipazione, ma che cosa significa mettere il pubblico in una condizione di disagio, disagio dell’altro, l’altro” che non è mai medesimo a te. Il filosofo Emmanuel Lévinas opera una distinzione tra “me medesimo” e l’altro”. Se ci muore un parente soffriamo molto, se ci muore un conoscente un po’ meno, se muore un essere umano al largo delle coste libiche o a due chilometri di distanza da noi già non proviamo più alcuna sofferenza. È un’epoca, la nostra, molto incentrata sul narcisismo, sull’egoismo, e quindi ci è sembrato importante spostare l’attenzione sull’”altro da te” e mettere il pubblico in una condizione di poter far a cambio, e far in modo che gli spettatori che sono dall’altro lato, in platea, possano pensare “empatizziamo con i partecipanti perché ci saremmo potuti trovare noi in questa condizione”. Che è una provocazione interessante dal punto di vista teatrale, perché si parlava in origine di “catarsi”, immedesimazione, e in teatro questa cosa è molto difficile, oggi, perché di solito abbiamo una distanza borghese: c’è il buio, siamo chiamati alle convenzioni, al silenzio, ma questo nell’Atene del V sec. a. C. non accadeva. Il teatro era un’”agorà”, un luogo pubblico in cui le persone si potevano alzare, potevano commentare, disturbare. Noi cerchiamo qualcosa di ancora più arcaico: il confronto diretto della platea con la scena. La comunicazione diventa più orizzontale, anche se la riflessione è verticale, più sottile. E a volte le persone ci espongono i loro punti di vista che sono i più svariati. Il nostro punto di vista è che noi ci sentiamo in un certo senso degli antropologi, dei sociologi, e attraverso la performance cerchiamo di far scattare qualcosa, la domanda dello spettatore che a fine spettacolo viene a chiederci qual è il messaggio che c’è dietro tutto questo. È già una riflessione. Una riflessione aperta. Fare teatro è un atto pretenzioso, stai dicendo qualcosa, come in un dialogo, e il nostro pensiero può contaminarsi con quello dell’altro, aprendo anche a risposte che non ci aspettavamo. Le nature dei nostri contenuti sono aperte, e secondo noi uno spettacolo in cui si dichiara tutto, senza un elemento di imprevedibilità, di “ignoto”, non è un buon spettacolo. L’imprevedibilità, il rischio, fanno parte della vita. Siete sulla scena teatrale contemporanea ormai da qualche anno, possiamo quindi tirare delle somme, cosa vedete cambiato a livello personale e collettivo? Abbiamo sicuramente negli anni conquistato un’attenzione maggiore, ma il nostro approccio verso la scena non è cambiato. Cerchiamo di mettere in parallelo etica ed estetica: c’è una forte attenzione verso i contenuti, e allo studio del progetto. Per noi la fase di progettazione, come per gli architetti, è una fase molto importante, in cui mettiamo tanto materiale. Studiamo molto e l’estetica è la risultante finale, che spesso ha un debito nei confronti della grande ricerca, perché poi, ovviamente, devi scartare, decimare, quello che hai studiato. Allo stesso tempo, però, le nostre ricerche nutrono anche altri progetti. La ricerca che facciamo su “M2” trova anche altre declinazioni, anche se poi si deve sintetizzare. Il teatro è “feedback”, devi usare quei cinquanta minuti; è l’arte della sintesi, ma tutta l’analisi precedente non si spreca, è un lavoro di ricerca che accomuna quello che facciamo al lavoro degli studiosi di una scienza.

Leggi anche