Come stiamo uccidendo le nostre Ong e smontando il sistema di Cooperazione

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08 febbraio 2019
Le Organizzazioni non governative in Italia sono oramai da tempo sotto attacco e non solo perché Matteo Salvini nutre per loro un odio viscerale. Il mondo del volontariato internazionale è preso di mira senza pietà, affossato e criminalizzato fino alle accuse di connivenza con trafficanti e scafisti che ledono fortemente l’integrità delle persone. Ma Salvini si scaglia contro chi è già molto indebolito dal punto di vista economico e alle prese con una reputazione segnata da anni di diffidenza. Un’ostilità che ha dei precedenti: un filo rosso lega il governo Conte a quello Gentiloni nel gettare un’ombra sulla professionalità dell’intero settore. Il Codice di condotta Minniti per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio in mare, introduceva già forti dubbi sul loro operato. Ma è anche vero che la marginalità della Cooperazione allo Sviluppo, con un disimpegno di fondi e una carenza di politiche pubbliche adeguate, affonda le radici in tempi più remoti. Una decina d’anni fa si inizia a parlare dell’urgenza di introdurre finanziamenti privati nell’ambito dello Sviluppo: il che facilita un ulteriore disimpegno da parte del nostro Ministero degli Esteri in un ambito già ben lontano dal fulcro della governance. Sono gli anni del governo Berlusconi IV, Franco Frattini è ministro degli Esteri per la seconda volta, ed Elisabetta Belloni direttrice generale del Dipartimento di Cooperazione (Dgcs). «L'aiuto allo sviluppo internazionale di tipo paternalistico-tradizionale ha fatto il suo tempo – diceva Frattini - Serve un nuovo modo di fare sviluppo». Belloni esegue e siamo al 2009: «I fondi continuano a essere esigui, tanto che non è prevista alcuna iniziativa che verrà svolta attraverso la collaborazione con le organizzazioni non governative». Con loro si affaccia per la prima volta l’idea di “privatizzare” la Cooperazione allo Sviluppo. A Milano nel 2012 si parla trionfalmente dell’ingresso di soggetti privati nella Cooperazione, nutrendo la speranza di realizzare delle partnership tra pubblico e privato. Questo approccio prosegue con la stesura della nuova legge di Cooperazione nel 2014, accolta con favore dalle Ong che la giudicano ‘buona’ sulla carta. Fin da subito è chiaro però che manca la volontà del legislatore di scendere più a fondo nei dettagli. La 125 è una cornice senza paletti. Allarga di molto il numero di soggetti abilitati a realizzare iniziative di sviluppo e lotta alla povertà, comprese le aziende private, a patto che siano ‘etiche’ e rispettino i diritti umani. Ma i limiti per i privati sono fin dall’inizio poco stringenti. In realtà sotto traccia rimane la sottile speranza di riuscire a veicolare fondi privati per rimpolpare il flusso sempre più scarso di Aiuto pubblico allo sviluppo. «La questione non è quanto sono voluminose le risorse pubbliche», diceva l’allora direttrice dell’Agenzia italiana di Cooperazione Laura Frigenti, «ma semmai come riescono ad operare in modo catalitico per far convergere flussi finanziari privati a favore dello sviluppo». Una prospettiva fallita o mai avviata, come attestano i report della stessa Cooperazione e come spiega Oxfam in diversi dossier. Fallita perché l’incontro tra Ong e aziende, o tra privato e pubblico, è quanto mai difficile e artificioso. Inoltre la nuova Agenzia di Cooperazione appare bloccata tuttora in una impasse ‘politica’, lasciata da oltre un anno senza un direttore. Ne parla con preoccupazione anche Silvia Stilli, portavoce Aioi, facendo notare che il Consiglio interministeriale per la Cooperazione non si riunisce da oltre un anno. Nel frattempo l’Aps, prima leggermente aumentato, quest’anno cala, mentre i fondi privati fanno fatica ad essere veicolati. L’ultimo rapporto Open Polis/Oxfam lo attesta e dice addirittura che c’è stato «un ritorno al passato»: la crescita dell’Aps promessa è stata smentita dalla finanziaria e dunque gli aiuti destinati ai progetti di sviluppo calano per la prima volta in quattro anni. Sull’altro versante le cosiddette partnership pubblico-privato non funzionano come dovrebbero, anche perché forse fare affidamento sulla “bontà” del business in Africa, come in Asia o America Latina, è rischioso. Le indicazioni su come far incontrare Ong e imprese non sono affatto chiare e le aziende che hanno voglia di delocalizzare vanno avanti pressoché da sole. «La riforma del 2014 ha tristemente istituzionalizzato la presenza degli attori privati, per farli entrare a pieno titolo nell’agenda dei beni comuni», ci spiega Nicoletta Dentico, consigliera d’amministrazione di Banca Etica. E prosegue: «in Italia, dopo Expo 2015, abbiamo visto progredire il ruolo delle aziende del settore alimentare nell’ambito dello Sviluppo, soprattutto Barilla, tramite la sua Fondazione». Nutre dubbi sulla Riforma anche Massimo Pallottino ricercatore di Caritas Italiana che fa notare come gli obiettivi dei privati non coincidano esattamente con quelli del no-profit: «la ‘convergenza implicita di obiettivi’ rischia di mantenere una certa ambiguità – dice -rispetto alla distinzione tra finalità di sviluppo e orientamento all’internazionalizzazione dell’impresa». Chi dice di voler portare ‘sviluppo’ in Africa, in realtà ha a cuore l’Africa o l’allargamento del proprio business? Questo è il punto. Fenomeni come il land grabbing sono proprio la conseguenza di un business che non guarda allo sviluppo delle comunità locali. Oltre a Barilla c’è la Ferrero che realizza progetti di sviluppo in Camerun e Sudafrica. Si dirà: che c’è di male? Il problema non sono le aziende, ma è la mancanza di regole del gioco: i privati di per sé non sono il diavolo, ma perseguono, per loro stessa ragione sociale, un altro fine: quello della massimizzazione del profitto. Quindi è molto controversa la loro presenza nei processi decisionali. Se nessuno mette chiari paletti, inevitabilmente sconfinano in territori che sono propri della agenda dei diritti umani, con enormi conflitti di interesse, soprattutto in macro-aree come quelle dell’agricoltura e alimentazione (cibo e terra), della sanità. Questo è un trend che non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo «i governi in questi anni hanno abdicato in larga misura ai privati le loro competenze in materia di sanità globale, agricoltura, diritti umani e hanno permesso ad altri attori di sostituirsi ad una governance pubblica», dice ancora Nicoletta Dentico. Qui da noi sono le grandi multinazionali come l’Eni ad aver approfittato del varco aperto dalla riforma della Cooperazione, non tanto per attingere soldi quanto per introdursi più a fondo in Paesi cruciali per il loro business come Egitto, Mozambico e Iraq. Di fatto la più grande multinazionale italiana del petrolio, del gas e dell’energia è diventata un attore prioritario dello sviluppo nei Paesi africani. L’Eni orienta intere politiche di Cooperazione italiana ed è un finanziatore di Ong valide e con una storia di successo alle spalle, come il Cuamm. Il ritorno di immagine e di business per l’azienda è impareggiabile: la multinazionale si apre strade nuove in Paesi borderline come la Nigeria o l’Angola e ottiene concessioni di esplorazione di bacini petroliferi dai governi africani. In cambio concede sì qualcosa: la costruzione di dighe e scuole, progetti per donne e bambini, validissimi modelli di energie pulite. Ma allo stesso tempo Eni è sul banco degli imputati accusata d’aver in passato sborsato tangenti per le quali è ancora sotto inchiesta in Nigeria. In tutto questo movimento, che ne è delle Ong? Trattate come un sottoprodotto scaduto della Cooperazione Italiana allo sviluppo, già di per sé svalutata e vilipesa con i tagli all’Aps, oggi boccheggiano e nessuno protesta. «La contrapposizione violenta al principio della solidarietà e cooperazione- denuncia ancora Silvia Stilli parlando delle iniziative salviniane - è un vero e proprio atto di accusa che indebolisce drammaticamente le Ong». E prosegue: «Per la prima volta dagli ultimi quattro anni stiamo facendo passi indietro nello stanziamento dei fondi, mentre l’Italia doveva arrivare allo 0,30% del Pil nel 2020, con questa finanziaria si è creato un blocco e una riduzione». Ma c’è di più: Oxfam nel suo recente dossier conferma che esiste un aiuto “gonfiato”: ossia viene contabilizzato come aiuto ai Paesi poveri anche quello destinato all’accoglienza dei rifugiati. Si tratta di fondi che non escono dal nostro Paese (il donatore) e che poco hanno a che fare con la lotta alla povertà: è qui che si vede il controsenso logico di un governo che da una parte si rifiuta di accogliere i rifugiati – pur ricevendo dei fondi ad hoc – e dall’altra taglia ulteriormente gli aiuti per i Paesi poveri tramite le Ong. Peraltro senza impedire che le Ong vengano ancora utilizzate, laddove sono indispensabili – per la ricostruzione del tessuto sociale in Siria ad esempio, o nel controllo dei campi di reclusione in Libia – o come testa di ponte della diplomazia italiana in Palestina e l’Afghanistan. Inoltre la tendenza è quella di far fronte alle sfide della migrazione chiudendo le frontiere e attingendo alle già scarse risorse pubbliche della cooperazione allo sviluppo. Insomma, la Cooperazione non governativa che lottava contro la povertà è diventata nel corso degli ultimi dieci anni una pedina nelle mani dei nostri governi, e soprattutto dell’attuale ministro degli Interni che le muove a suo piacimento, abusando del proprio ruolo, senza che il ministro degli Esteri si inquieti più di tanto. Mentre pochissimo si dice di quanto i cooperanti siano motivati e disposti a vivere situazioni di disagio, di pericolo, di scarsa gratificazione economica. Sono la nostra meglio gioventù e la stiamo maltrattando senza una ragione.

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