Smantellare la finzione della zona Sar libica nata dalla politica dei muri

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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27 maggio 2019
“Occorre smantellare la finzione della zona Sar libica, mettendo sotto accusa la politica dei muri contro i migranti che l’ha creata”. E’ questa la risoluzione emersa al termine di un convegno che – come si evince dal tema: “Il dovere di salvare” – ha messo a confronto la “legge del mare” e quanto sta accadendo nel Mediterraneo. Organizzato dal Comitato Nuovi Desaparecidos e dai dipartimenti di Giurisprudenza e di Scienze della Formazione dell’Università Roma 3, l’incontro, oltre che per le notizie di morte che giungono di continuo dal Mediterraneo e dalla Libia, ha assunto una particolare, drammatica attualità anche perché si è svolto proprio nei giorni in cui è stato portato in discussione al Consiglio dei Ministri il “decreto sicurezza bis” voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Decreto nel quale si parla di porti sempre più chiusi, sanzioni sempre più pesanti contro le Ong fino addirittura alla confisca delle navi che abbiano recuperato in mare più di 100 migranti portandoli in Italia, ammende da 10 a 50 mila euro a carico del comandante delle unità di soccorso, dell’armatore e del proprietario. Un ennesimo giro di vite, volto a bloccare in mare e a respingere ad ogni costo i migranti, che il Viminale “giustifica”, tra l’altro, con le accuse a raffica alle Ong di essere conniventi e complici dei trafficanti, nonostante tutte le istruttorie aperte in proposito a loro carico siano finite in un nulla di fatto. Le relazioni di base sono state svolte dal senatore Gregorio De Falco; da Stefano Greco, avvocato del Foro di Roma; da Claudio Alberto Tognonato, Università Roma 3. I lavori – introdotti da Giovanni Serges, direttore del dipartimento di Giurisprudenza, e da Massimiliano Fiorucci, direttore di Scienze della Formazione – sono stati coordinati da Arturo Salerni, presidente del Comitato Nuovi Desaparecidos. Nel dibattito sono intervenuti Emilio Drudi ed Enrico Calamai, del Comitato Nuovi Desaparecidos. La linea di fondo emersa è che la strage in atto da anni nel Mediterraneo e lungo le vie di fuga in Africa – solo nel 2019 ben 681 morti fino al 24 maggio: 566 in mare e 115 a terra – è un risultato diretto della politica di chiusura e respingimento, sempre più dura, adottata dall’Unione Europea e in particolare dall’Italia. E la zona Sar che la Libia si è attribuita dal giugno 2018 ha ulteriormente aggravato la situazione, fornendo un alibi per smantellare di fatto tutta la precedente rete di soccorso in mare: sia quella messa a punto negli ultimi anni dalle istituzioni pubbliche, sia quella organizzata da numerose Ong, a partire dal 2014/15, proprio per sostituirsi alla graduale ritirata degli Stati. “Per porre fine a questa strage – si è detto – occorre fare subito qualcosa”. Questo “qualcosa” è stato individuato nella istituzione di un comitato tecnico-giuridico che metta in discussione, di fronte a una corte internazionale, l’intera politica dei muri adottata dall’Unione Europea e dall’Italia nei confronti dei migranti ma, in particolare, come primo atto e in maniera più specifica, faccia emergere l’enorme, tragica contraddizione costituita proprio dalla zona Sar libica, che è frutto diretto di questa politica e che – nonostante l’inclusione nei registri della Organizzazione Marittima Internazionale e, soprattutto, nonostante il “riconoscimento” arrivato dagli Stati mediterranei (a cominciare dall’Italia) – risulta in realtà una pura finzione, non essendo Tripoli minimamente in grado di coordinare, organizzare e condurre soccorsi a natanti in difficoltà nel Mediterraneo. Mancano, infatti, alla Libia, tutti i requisiti essenziali previsti per poter gestire una zona Sar e – si è fatto notare – non è credibile che non ne siano al corrente gli Stati che non hanno esitato a “riconoscerla”, questa nuova zona Sar, e anzi, sorvolando sul fatto che ricondurre in Libia i migranti significa riconsegnarli all’inferno da cui erano fuggiti, se ne giovano per “scaricare” su Tripoli la responsabilità dei soccorsi: anche in condizioni estremamente drammatiche e pur sapendo bene che quasi mai gli interventi di salvataggio saranno tempestivi e adeguati. Non per niente – è il caso di ricordarlo – si insiste molto sulla diminuzione degli arrivi in Italia, ma si trascura di rilevare che il tasso di mortalità, sulla rotta del Mediterraneo Centrale, è schizzato quest’anno a una vittima ogni 3 profughi sbarcati. Risultano almeno sei le carenze più palesi, che lasciano “scoperta” una zona di mare vastissima, larga oltre 1.760 chilometri lungo la costa libica (a partire, a ovest, dal confine con la Tunisia) e profonda circa 100 miglia marine, tanto da arrivare alle soglie di Lampedusa: in totale, quasi 330 mila chilometri quadrati. – Manca una centrale operativa in grado di organizzare, coordinare e condurre i soccorsi. Meno che mai è disponibile una rete di sotto-centrali. Lo dimostra, tra l’altro, il fatto – ampiamente provato dalle denunce di navi Ong e da varie inchieste giornalistiche – che spesso i numeri d’emergenza di Tripoli restano completamente muti alle chiamate e che non di rado, quando qualcuno risponde, l’unica lingua usata è l’arabo. – Non esiste traccia di una rete radar né di telecomunicazioni e radio in grado di coprire neanche in minima parte la zona Sar per individuare i casi d’emergenza, coordinare e indirizzare i soccorsi, organizzare tutti gli interventi necessari, ecc. Manca, cioè, il primo strumento essenziale per una centrale operativa. – Non ci sono navi e altre unità di soccorso in mare sufficienti ed efficienti. La “flotta” è costituita essenzialmente da vecchie motovedette revisionate, ricevute in dono dall’Italia, e da altro naviglio minore. Lo stesso portavoce della Marina libica, il generale Ayoub Qassim, ha dichiarato più volte che i mezzi disponibili sono ampiamente inferiori ai compiti da svolgere. Nonostante i corsi di addestramento condotti dalla Guardia Costiera italiana, inoltre, anche l’efficienza e la preparazione del personale sono a dir poco discutibili: c’è perfino il dubbio che certi equipaggi non siano in grado di navigare in altura. – Manca del tutto una flotta aerea da destinare agli interventi di soccorso: aerei da ricognizione e pattugliamento, elicotteri da ricognizione e salvataggio, ecc. E non c’è traccia di personale addestrato a questi compiti. – Non esiste una vera e propria Guardia Costiera libica, nel senso di una organizzazione unitaria, dipendente da una scala gerarchica e che agisca in base alle direttive di un comando unico. Si tratta, invece, per lo più, di una serie di organizzazioni militari o paramilitari praticamente autonome, dislocate in vari porti, ciascuna con una propria sfera di potere e di interessi e con un proprio comando di riferimento, sul quale il Governo centrale di Tripoli non è in grado di esercitare quasi alcun controllo. – Non c’è, in tutta la Libia, alcuna garanzia di “porti sicuri” di approdo a causa del caos in cui versa da anni l’intero paese. Basti citare i numerosissimi rapporti “sull’inferno libico” stilati a più riprese non soltanto da tutte le principali Ong (Amnesty, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, Human Rights Watch, ecc.) ma anche dall’Unhcr e dalla stessa missione Onu. Tutti concordano che riportare i migranti in Libia significa riconsegnarli all’inferno da cui sono scappati e farne dei “desaparecidos”. Con la guerra civile e l’assalto a Tripoli iniziato oltre un mese fa, la situazione ora è ulteriormente peggiorata. E proprio in questi giorni l’Unhcr ha rilanciato a più riprese l’appello-denuncia che i migranti intercettati in mare non devono assolutamente essere riportati in una realtà come quella libica. A tutto ciò si può aggiungere che manca anche un “governo di riferimento”. Quello di Tripoli, guidato da Fayez Serraj, il Governo di alleanza nazionale (Gna), è riconosciuto dalla comunità internazionale ma, di fatto, non è in grado di esercitare quasi alcun controllo sul paese, ha resistito all’assalto a Tripoli condotto dal generale Haftar soltanto grazie all’appoggio di milizie autonome che difendono non tanto l’istituzione quanto propri interessi e propri poteri ma, soprattutto, non è mai stato accettato dalla maggioranza della popolazione libica, che lo considera una “creatura degli occidentali”, a tutela e servizio di progetti di stampo neocoloniale. Quanto al Parlamento di Tobruk (che non ha mai riconosciuto il Gna) rischia di dar vita, con il generale Kalifa Haftar, al governo di un “signore della guerra”, forte anche del sostegno di Russia, Arabia, Emirati ed Egitto. Ma la situazione, intanto, resta a dir poco nebulosa. Anzi, tempestosa In questo contesto, attribuire credibilità alla zona Sar libica è quanto meno azzardato. Peggio: appare una scelta dettata da opportunismo e cinismo. Non a caso ora più che mai quelle che vengono presentate come operazioni di soccorso della Guardia Costiera libica si rivelano, in realtà, respingimenti indiscriminati in aperto contrasto con il diritto internazionale. L’intero dibattito è stato seguito da Radio Radicale. Questo il link della registrazione: https://www.radioradicale.it/.../il-dovere-di-salvare-la-legge-del-mare-la-politica-dei-muri-e-la-zona-sar-libica

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