Le madri eritree come le madri de Plaza de Majo

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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28 giugno 2019
In piazza “armate” soltanto di un foulard bianco, il simbolo internazionale della lotta per i diritti umani. Le donne eritree della diaspora hanno dato vita a un movimento che, ispirandosi a quello delle Madri di Plaza de Majo, intende organizzare una serie di manifestazioni in tutta Europa per chiedere “verità e giustizia” per i propri cari scomparsi: per le migliaia di giovani, uomini e donne, inghiottiti in patria dalla repressione del regime negli ultimi vent’anni e quelli che si sono persi durante la loro disperata fuga dall’Eritrea, lungo le piste del deserto, nei paesi di transito, nella traversata del Mediterraneo.
“ Il primo appuntamento – spiega Yowhana, esule in Italia da cinque anni – è stato fissato per domenica 30 giugno. Cominceremo dalla ‘piazza virtuale’ del web ma, in un futuro che speriamo prossimo, contiamo di ‘invadere’ anche le piazze e le strade vere e proprie delle città, scegliendo dei luoghi strategici: ad esempio, le adiacenze delle ambasciate eritree nei vari paesi europei. Pensiamo a una sorta di ‘marcia a staffetta’ che toccherà via via tutte le capitali degli Stati Ue, per poi ricominciare: un ciclo ininterrotto, perché non intendiamo fermarci fino a quando non avremo risposte. E abbiamo buone speranze di poter estendere l’iniziativa, specie sul web, anche alle donne rimaste in Eritrea, che vivono forse con trepidazione e pena anche maggiori delle nostre la tragedia dei loro cari desaparecidos”.
Nella ‘piazza del web’ si alterneranno donne che racconteranno la loro storia e quella dei loro padri, mariti, fratelli scomparsi nel nulla. “Ricordare e narrare quelle storie, migliaia di storie – dice Selam – servirà quanto meno a non perderne la memoria. E quando diciamo memoria non intendiamo il semplice ricordo di questa o quella persona. Intendiamo memoria come ‘assunzione di responsabilità’: come stimolo, anzi, come obbligo morale, a chiarire e a rendere conto di quanto è successo. Perché di quanto è successo qualcuno prima o poi dovrà rendere conto: ci riferiamo innanzi tutto al regime che schiavizza da anni il nostro Paese, ma ci rivolgiamo anche, con grande decisione, alle istituzioni europee, ai Governi di tutti gli Stati membri della Ue e più in generale del mondo occidentale, specie ora che sono sempre più frequenti e incomprensibili le ‘aperture’ politiche senza condizioni nei confronti della dittatura di Isaias Afewerki”.
Yodit è in Italia da decenni. Da ragazza ha combattuto nell’esercito di liberazione nella guerra trentennale per la conquista della libertà e dell’indipendenze dell’Eritrea. Una guerra nella quale le donne hanno avuto un ruolo determinante, non solo con compiti ausiliari, ma di prima linea, dove erano oltre il 30 per cento della forza in armi. “Ora è la stessa cosa – dice – Solo che le nostre armi non sono più i fucili o le mitragliatrici, ma gli strumenti della democrazia e della non violenza attiva. Per far esplodere le contraddizioni e i soprusi della dittatura di Afewerki ed arrivare a rovesciarla. E per ammonire l’Europa e il Nord del mondo che una nuova Eritrea, davvero libera e democratica, si potrà avere solo con la caduta del regime: con una pacifica ma radicale operazione di verità e giustizia che faccia emergere tutto quanto è accaduto negli ultimi vent’anni. Perché è assurdo pensare, come sembrano fare vari Stati europei a cominciare dall’Italia, che ci potrà essere un vero cambiamento se non verranno rimossi i personaggi responsabili della scomparsa dei nostri cari: decine di migliaia di persone. Non c’è una sola famiglia, in Eritrea, che non abbia perso un padre, un fratello, un marito o una moglie, una sorella…”.
Zeudi riprende il discorso di Yodit: “Mi viene da pensare, in particolare, alla strage di Lampedusa: quella tragedia, 366 vittime, che ha gettato di colpo in faccia al mondo, il 3 ottobre 2013, il dramma dell’Eritrea. A quasi sei anni di distanza non si è ancora riusciti a dare un nome a tutti quei morti. E non è ancora chiaro se e quali responsabilità ci siano state: il processo è in corso presso il tribunale di Agrigento. Non solo: è tuttora senza riscontro la richiesta, formulata da molti eritrei della diaspora sia nell’immediatezza della tragedia che nei mesi successivi, di seppellire tutte le salme delle vittime in un unico luogo, a Lampedusa o in un’altra località simbolica della Sicilia. Con due obiettivi: dare una risposta all’esigenza dei familiari di avere un posto dove ricordare i propri cari e creare un mausoleo dedicato a tutte le vittime dell’immigrazione: una sorta di sacrario che sia monito ed accusa costante contro le ‘chiusure’ del Nord del mondo nei confronti di chi è costretto ad abbandonare la propria casa e contro la politica di repressione di tutte le dittature, a cominciare da quella eritrea. Ecco, le donne che hanno dato vita al nostro movimento, con la loro voce e i loro racconti, vogliono diventare la memoria vivente di tutto questo. Una memoria che diventa una battaglia per la libertà”.
Meaza riporta il discorso sul perché di questa scelta e sugli aspetti organizzativi. “Con la loro forza di volontà, con il loro amore di madri, le donne argentine hanno vinto una battaglia che sembrava impossibile, sfidando la dittatura militare quando era all’apice del suo potere e non si faceva certo scrupoli a usare ogni genere di violenza. Hanno cominciato in poche, ‘mettendoci la faccia’: dicendo chiaramente chi erano e perché erano lì. Il potere enorme della verità ne ha fatto un esercito che non si fermato davanti a nulla. Noi vogliamo seguirne le orme, direi passo per passo. Non è stata una scelta facile, perché siamo di fronte a un regime che non dimentica e non esita a vendicarsi, ma ciascuna di noi dirà chi è e perché ha deciso di impegnarsi in questa lotta. Prima sul web e poi nelle piazze reali, mostrando i ritratti dei nostri cari scomparsi e parlando in loro nome. Dando voce ai tanti, troppi desaparecidos. E chiedendo il sostegno delle donne e delle madri di ogni parte del mondo. Dell’Italia e dell’Europa, in particolare, dove sono più numerosi i profughi costretti fuggire dall’Eritrea”.
Di seguito il testo dell’appello lanciato dal movimento delle donne eritree per la campagna di empowerment Wherearethey
Donne dell’Eritrea! Mostrate chi siete. Mostrate il peso che il vostro impegno e il vostro lavoro – in patria o all’estero – hanno sulla società. Mostrate l’importanza del vostro pensiero, l’eccellenza delle vostre doti, la forza della vostra diversità e del vostro essere semplicemente ‘voi stesse’…”.
L’iniziativa vuole coinvolgere quante più donne eritree possibile, nella diaspora o in patria. Donne delle più diverse classi sociali, provenienze, occupazioni, religioni. Giovani e meno giovani. Ma tutte saldamente unite da un denominatore comune: un grande senso, anzi, un amore sconfinato per la libertà. Donne protagoniste di episodi, proposte, discorsi che dimostrano come ciascuna possa cambiare l’attuale realtà dei fatti, chiedendo con grande forza d’animo giustizia per i propri cari. Che dimostrano come si possa combattere con dignità e vincere con le “armi” della non violenza e della verità.
E’ una campagna di comunicazione tutta “in rosa”: realizzata dalle donne, avrà come protagoniste le donne in diaspora e un giorno che speriamo non lontano anche all’interno dell’Eritrea stessa. Una campagna di sensibilizzazione che, attraverso il claim Wherearethey , punta sul valore dello “stare insieme”, dandosi forza a vicendas. Il prio appuntamento è pe ril 30 giugno: da questo momento in poi il messaggio, gli appelli, le iniziative realizzate e gli obiettivi da raggiungere avranno un’ampia diffusione su Fb, Instagram e Ttwitter, con l’obiettivo di raggiungere soprattutto i giovani.
Ecco: i social diventano il palcoscenico da cui le donne eritree potranno denunciare e chiedere conto della scomparsa dei loro cari, degli abusi e delle tragedie di questi anni. Dei tanti, troppi “desaparecidos” politici o lungo le vie di fuga dell’immigrazione.
Ora come non mai è il momento di unirsi. E’ l’unico modo per far sapere al mondo che le donne eritree “ci sono” e non si arrendono, senza sentirsi oppresse dalla mancanza di notizie, dalla presa in giro e dal disprezzo del regime. Si tratta di abbattere il muro di silenzio e il senso di paura con cui il potere politico attanaglia tanta parte della popolazione: acquisire visibilità e diventare motore di Mobilitazione Nazionale.

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