Eritrea andata e ritorno: profugo appena rimpatriato scappa di nuovo

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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22 luglio 2019
E’ scappato dall’Eritrea nel 2016, quando era appena sedicenne. Ha trascorso tre anni d’inferno in Sudan, in Egitto e infine in Libia, in mano ai trafficanti e poi nel centro detenzione di Zuwara. Pur di lasciare quel lager, dove la sua vita era appesa a un filo, ha accettato, insieme ad altri ragazzi eritrei, di essere inserito nel piano di “rimpatri volontari” gestito dall’Oim, l’Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione, con la segreta intenzione di provare a scappare prima di salire sull’aereo per Asmara. Non ce l’ha fatta ma, giunto in Eritrea, è fuggito di nuovo, varcando il confine con l’Etiopia. Ora è da qualche parte ad Addis Abeba.
“ La storia di Jonas* è emblematica: conferma – come hanno sempre sostenuto le forze di opposizione al regime – che, se non tutti, certo la maggior parte dei nostri giovani che negli ultimi mesi hanno accettato di rientrare, una settantina, hanno semplicemente ceduto alla paura di non avere più la forza di resistere a torture, malattie e maltrattamenti nei campi. Ecco il punto: sono ancora più vittime, non certo i “testimoni” che, dopo la pace con l’Etiopia, l’Eritrea sta cambiando”, afferma un portavoce del Coordinamento Eritrea Democratica.
Eccola, allora, la storia di Jonas. E’ un ragazzo come tanti. Abita in un villaggio non lontano da Asmara. L’adolescenza è l’età dei sogni e dei grandi progetti per la vita. Ma non per i ragazzi eritrei che, con il servizio militare obbligatorio a tempo indefinito, hanno il destino pressoché segnato. Jonas studia e, finché è studente, è al sicuro dalla chiamata di leva, almeno fino all’ultimo anno. Ma a scuola non va troppo bene e quando sta per compiere sedici anni decide di lasciar perdere. Ora non può rimandare “l’appuntamento” con il servizio nazionale. Ma è un appuntamento al quale non intende andare. Nell’estate del 2016 si mette d’accordo con otto coetanei per lasciare il Paese e ne parla a casa. I genitori e il fratello maggiore non lo ostacolano: capiscono la sua voglia di vivere e cercano di mettere insieme il denaro, non poco, che certamente servirà per la fuga.
L’intero gruppo di nove ragazzini lascia Asmara verso la fine del 2016. A organizzare a fuga è un clan di trafficanti che opera all’interno dell’Eritrea. Anziché dirigersi direttamente a nord, in direzione del Sudan, la “guida” porta i fuggiaschi verso Asmara, poi risale la costa lungo il Mar Rosso, varca il confine sudanese e raggiunge Port Sudan. Neanche il tempo di arrivare e i nove giovani vengono presi prigionieri da miliziani armati dei trafficanti: non li rilasceranno fino a quando le famiglie non pagheranno il “ticket” pattuito. Inizialmente avevano chiesto 8 mila dollari a testa. A furia di trattare scendono a 5 mila. Vengono liberati solo quando è stato versato anche l’ultimo cent. A questo punto si tratta di proseguire. Qualcuno suggerisce il nome di Abduselam Ferensawi, un eritreo che negli ultimi anni si è “fatto spazio” nel giro dei “contrabbandieri di profughi” in Libia e in Sudan ed oggi è considerato uno dei capi di punta del mercato di esseri umani. Contattarlo non è troppo difficile. Lui si offre di portarli in Libia. Avverte però che ci vorrà del tempo. Jonas ha fretta: piuttosto che aspettare preferisce tentare la via dell’Egitto. Per arrivarci paga altri 3.500 dollari. Ma una volta in Egitto si rende conto che salpare da qui verso l’Europa è impossibile: tutti i punti d’imbarco clandestini, nel Delta del Nilo, sono chiusi e controllati dalla polizia. Non resta che tentare verso la Libia. Ci pensa di nuovo Abduselam Ferensawi, in cambio di altri 2.500 dollari. La somma totale sale così a 11 mila dollari: una “fortuna”, ma i genitori e il fratello di Jonas, pur di aiutarlo, non esitano a dar fondo a tutte le risorse che hanno, rivolgendosi anche a parenti ed amici rifugiati in Europa ormai da tempo. Parenti e amici che non si tirano indietro proprio perché spesso hanno già vissuto l’esperienza di Jonas.
Dall’inizio della fuga, intanto, sono trascorsi quasi otto mesi. In Libia Jonas ci arriva tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2017. Passa il confine da sud-est, attraverso il Sahara, ma non ha fortuna. E’ già sulla strada di Tripoli quando il gruppo di profughi a cui è stato aggregato da Abduselam viene catturato da una banda di miliziani, non lontano da Bani Walid. Ancora non lo sa, ma sta per essere rinchiuso in uno dei campi più spaventosi dell’intera galassia dei lager libici: soprusi, pestaggi, violenze, lavoro schiavo sono la vita quotidiana. “Tra i metodi di tortura più praticati – ha raccontato al fratello – c’era quello con l’elettricità: scariche fortissime attraverso elettrodi applicati alle parti più intime e sensibili”. In quell’inferno ci resta per quasi tre mesi. Fino a quando i genitori e altri familiari riescono a mettere insieme 5.500 dollari per farlo rilasciare.
E’ ormai l’ottobre del 2017 quando finalmente raggiunge Tripoli e può cercare un imbarco per l’Italia. Ha appena 17 anni ma la dura esperienza maturata negli ultimi mesi lo ha fatto crescere quasi di colpo: sa come muoversi e a chi rivolgersi. Dopo alcune settimane trova il modo di partire: una barca piccola, per poche decine di persone, che può passare inosservata e sfuggire ai controlli, partendo da Zuwara, a ovest di Tripoli. Ogni posto, però costa 1.500 dollari. La famiglia è esausta, ma riesce a fare un ultimo miracolo: “La vita di Jonas – dicono i genitori – conta più di tutto…”. Sembra fatta. E invece no. La polizia libica ha avuto sentore della partenza e la notte dell’imbarco, verso la fine del 2017, fa irruzione sulla spiaggia, nei sobborghi di Zuwara, proprio mentre i ragazzi sono già sulla battigia. Vengono tutti arrestati e condotti al vicino centro di detenzione.
Questa volta è davvero la fine. Jonas si rende conto che non può chiedere altro alla famiglia. I mesi di prigionia si susseguono, lunghi come un tunnel buio senza uscita. Per un anno e mezzo. L’Unhcr registra lui ed altri come richiedenti asilo, ma avverte che le speranze sono poche e che comunque i tempi di attesa si prospettano forse addirittura di anni. Un barlume di luce si presenta con i programmi di rimpatrio dell’Oim. Se ne giovano soprattutto nigeriani, gambiani, senegalesi. Per gli eritrei è diverso: rientrare in patria significa consegnarsi da soli nella mani del regime da cui sono scappati. Ma il Governo di Asmara preme molto su questo progetto e anzi contesta l’Unhcr che continua a registrare gli eritrei come rifugiati e richiedenti asilo per trasferirli, appena possibile, fuori dalla Libia. Vuole dimostrare evidentemente, attraverso quanti più “rimpatri volontari” possibile, che non c’è motivo di lasciare il Paese, specie dopo la pace firmata con l’Etiopia. Che gli stessi fuggiaschi, insomma, si rendono conto di aver fatto un errore. L’ambasciatore a Tripoli ne discute con il ministro dell’interno libico ed è lui stesso, in diversi casi, a far avere i documenti di viaggio ai ragazzi che accettano il “rientro”.
Jonas punta su questa soluzione: tra aprile e maggio 2019 fa sapere che è interessato al rimpatrio. In realtà, il suo obiettivo è trovare il modo di uscire dal centro di detenzione di Zuwara: ci ha già passato quasi 18 mesi e non ne può più, sente che sta per cedere e lasciarsi andare. “Una volta fuori da qui – pensa – cercherò di scappare, lungo la strada per Tripoli o a Tripoli stessa. In ogni caso, prima di salire sull’aereo per Asmara…”. Ma ha fatto male i suoi conti: dopo che gli sono stati consegnati i documenti, il tragitto fino all’aeroporto di Tripoli avviene sotto scorta, senza la possibilità di fare un solo passo. E, una volta sull’aereo, è in trappola.
Appena giunto ad Asmara, viene identificato dalle autorità governative che gli concedono una settimana per recarsi a casa, nel suo villaggio, a salutare la famiglia. Trascorsi sette giorni, dovrà ripresentarsi: altrimenti andrà a cercarlo la polizia. Lo Stato, insomma, non intende “mollarlo”. Per Jonas sono giorni di grande incertezza e timore: nella migliore delle ipotesi – pensa – sarà assegnato al servizio nazionale da cui si è voluto sottrarre e per di più, data la sua condizione di “disertore”, probabilmente nei reparti più duri e nei servizi peggiori. Così decide di scappare di nuovo.
Questa volta fa tutto da solo. Una mattina presto, prima che scada la settimana, lascia la sua casa e si incammina verso il confine con l’Etiopia. Non dice nulla a nessuno, neanche ai genitori. Preferisce non salutarli nemmeno: sa bene quanto denaro hanno dovuto mettere insieme per farlo scappare e soccorrerlo di volta in volta durante le varie, difficili fasi della prima fuga e non vuole “pesare” ancora su di loro. Scappa, in pratica, con i pochi abiti che ha indosso, senza soldi e senza neanche un cellulare con cui dare notizie, se e quando riuscirà a varcare la frontiera. Il fratello maggiore, non vedendolo rientrare la sera, intuisce che ha lasciato di nuovo il paese. Ne ha conferma alcuni giorni dopo, all’inizio di luglio, quando Jonas telefona da Addis Abeba. Dice che non ha un cellulare e che sta parlando da un telefono pubblico: vuole salutare i genitori e spiega che non se l’è sentita di restare. Che non intende consegnarsi al regime. Ma aggiunge, di fronte alle obiezioni del fratello, che questa volta la famiglia non deve spendere un soldo per lui: cercherà di cavarsela da solo, come può. Ricominciando da Addis Abeba.
Il fratello non tanto, ma i genitori lo incoraggiano a seguire le sue scelte. Gli chiedono solo di farsi sentire ogni volta che può. Dopo quella telefonata, lunghe settimane di silenzio. Non avendo un cellulare o comunque un numero telefonico dove cercarlo, a casa non ne hanno saputo più niente. Non sanno nemmeno, ad esempio, come ed eventualmente con chi sia fuggito, riuscendo a passare la frontiera che, dalla fine di dicembre 2018, è di nuovo chiusa. Jonas non ne ha fatto parola: un po’ perché aveva fretta di chiudere la telefonata, un po’, c’è da pensare, per una misura di sicurezza. A casa sperano che mandi notizie quanto prima. “Mio padre e mia madre – ha detto il fratello – sono convinti che abbia fatto la scelta giusta. Ma sono straziati dalla paura che possa capitargli qualcosa di brutto… Sono ormai tre anni che vivono ogni giorno, ogni notte, questa pena…”.
Nota
* Jonas è un nome di copertura pe tutelare la sicurezza del ragazzo e della sua famiglia
Per approfondire si consiglia di leggere il testo di Emilio Drudi, Fuga per la vita, edito dal centro studi Tempi Moderni e Simple ed.

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