Qualche disperato paga per entrare nei lager libici sperando nella relocation. Ma la relocation è bloccata

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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02 novembre 2019
I rifugiati africani in Libia sono così disperati che qualcuno arriva a pagare una tangente per entrare nei centri di detenzione, nella speranza di essere eventualmente inserito in un programma di relocation e poter così lasciare quel paese sconvolto dalla guerra, dove nessuna legge ormai ha più valore. Eppure, mentre continuano gli attacchi e i bombardamenti su Tripoli, solo pochissimi Stati si stanno mostrando disponibili ad accogliere i profughi”. E’ – secondo quanto riferisce il Libyan Address in una corrispondenza da Ginevra – l’ennesima denuncia dell’Unhcr sulla drammatica situazione dei migranti intrappolati in Libia. E che l’Unhcr, con i programmi di relocation, sia diventata per molti l’ultima speranza lo conferma il fatto che sono sempre di più quelli che cercano di raggiungere e trovare in qualche modo ospitalità e assistenza presso il Gathering and Departure Facility (Gdf), il centro di evacuazione urgente che l’organizzazione ha aperto nel dicembre 2018 a Tripoli per i soggetti più vulnerabili e a rischio, da trasferire prima possibile. Lì, ad esempio, hanno pensato che avrebbero potuto rifugiarsi centinaia di profughi dopo il bombardamento del campo di detenzione di Tajoura l’estate scorsa. Lì hanno cercato riparo almeno 300 ragazzi fuggiti da Abu Selim, una delle prigioni dove le condizioni di vita sono più inumane. Ma una volta lì, non hanno trovato una soluzione alla loro tragedia. Al di là dell’aiuto immediato che quei disperati possono ricevere nel Gdf, visto ormai come l’unica struttura relativamente sicura a Tripoli, il punto è che i programmi di relocation sono bloccati: attraverso i canali umanitari e di emigrazione legale dalla Libia non si esce più, perché l’Europa e l’Occidente fanno muro e, dimenticando spesso gli impegni sottoscritti, si voltano dall’altra parte di fronte alla sorte drammatica di migliaia di persone. E’ questo il senso che si coglie nella denuncia dell’Unhcr. “Quattordici Stati hanno offerto complessivamente 6.611 posti, mentre il Niger e il Rwanda sono disponibili per una ospitalità temporanea. Tutto qui”, ha specificato Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, non mancando di precisare che di quei 14 Stati molti in realtà non hanno dato corso alle promesse fatte. E’ evidente che quei 6.611 posti – oltre tutto in gran parte solo teorici – sono nulla di fronte alla tragedia che si sta consumando da anni. In Libia si contano attualmente oltre 650 mila migranti. Quasi 60 mila (59.778 a fine luglio) hanno avuto un contatto con l’Unhcr e almeno 45 mila sono stati registrati come rifugiati o richiedenti asilo, ma le possibilità di trasferirli in Europa o comunque un paese sicuro sono pressoché nulle. Al momento restano circa 300 posti (sui 500 offerti) in Rwanda, come primo passo verso un paese occidentale: si prevede che verranno esauriti entro novembre. Poi più nulla. Si è chiuso da tempo, proprio perché poi non è stato dato corso al trasferimento successivo, anche lo step del Niger. Questa “chiusura” del Niger è emblematica. Va da sé che il programma di ricollocamento e reinsediamento funziona solo se tutti rispettano gli impegni. Sta accadendo, invece quello che si è già verificato con il piano di relocation dalla Grecia e dall’Italia verso altri Stati europei varato tra il 2016 e il 2017: dei 160 mila posti previsti (100 mila dalla Grecia e 60 mila dall’Italia) si è scesi in concreto a meno di 30 mila rifugiati effettivamente accolti: 20.066 provenienti dalla Grecia e 9.078 dall’Italia. Per la Libia, nell’incontro tra Unione Europea e Unione Africana tenuto in Costa d’Avorio nel novembre 2017, l’impegno era di evacuare almeno 15 mila persone nei primi tre mesi, fino a febbraio 2018, attraverso rimpatri volontari o, appunto, progetti di relocation, sia direttamente verso paesi occidentali, sia con una sosta temporanea in Niger o in altri eventuali “santuari di transito”, come quello aperto di recente in Rwanda. Per il periodo successivo si prospettava una media di 4-5 mila partenze al mese. Se il piano fosse stato rispettato, dovremmo essere, tra rimpatri volontari e relocation, a oltre 100 mila trasferimenti. A fine ottobre 2019, invece, non si è arrivati neanche a 30 mila. Più della metà (18.871) sono rimpatri volontari (soprattutto verso la Nigeria), mentre risultano circa 6 mila i “ricollocamenti” e poche decine i rimpatri realizzati sulla base di accordi bilaterali tra governi. Intanto, mentre la relocation è bloccata, si continuano ad alzare muri contro ogni tentativo dei profughi/migranti di uscire dall’inferno della Libia, intrappolandoli in una realtà quotidiana fatta di morte, torture, riduzione in schiavitù, stupri e violenze di ogni genere, ricatti. La realtà di lager dove ogni diritto è soffocato e dove le persone sono ridotte a “merce” da sfruttare, la cui vita vale solo la manciata di dollari che miliziani e trafficanti pensano di poterne ricavare. Spesso, anzi, neanche quella manciata di dollari. Ecco perché per ogni profugo finito in questo inferno riuscire a trovare qualcuno disposto a procurargli un imbarco, anche a caro prezzo e sotto ricatto, è comunque una liberazione: nonostante i gravissimi pericoli che tutti sanno di dover affrontare a bordo del gommone fragile, malandato, stracarico con cui si avventurano nel Mediterraneo. L’ultimo atto di questo quadro è il diktat emanato dal Governo di Tripoli per assoggettare e condizionare l’attività delle Ong impegnate nei soccorsi in mare, mettendone le navi sotto il controllo, quasi al servizio, della Guardia Costiera libica, che si riserva il diritto di impartire ordini e direttive, bloccare le operazioni, decidere se, come e quando consentire l’intervento, salire a bordo in qualsiasi momento e far scattare il sequestro dell’unità e dell’equipaggio in caso si ritenga che non sia stata rispettata una qualche disposizione. Il Governo italiano ne ha preso atto senza la minima reazione od obiezione. Di più, non ne ha nemmeno dato notizia in maniera adeguata. Non subito, comunque. Se ne è cominciato a sapere qualcosa, diversi giorni dopo la notifica, soltanto da fonti libiche e dalle dichiarazioni di alcuni funzionari dell’Unhcr. Un silenzio assurdo. Dovuto forse al desiderio di non compromettere il rinnovo automatico, previsto all’inizio di novembre, del memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017. O, ancora, per non sollevare clamori su uno dei capitoli dell’accordo sottoscritto nel settembre scorso a La Valletta tra Malta, l’Italia, la Francia e la Germania, sotto l’egida dell’Unione Europea: quel “capitolo” nel quale si ribadisce il ruolo chiave della Libia nel controllo dell’emigrazione sulla rotta del Mediterraneo centrale, con il mandato di impedire la partenza o di bloccare in mare le barche cariche di disperati che sono riuscite a salpare. E’ un compito, questo del gendarme anti immigrazione, che la Libia svolge con grande rigore ed efficacia crescente. E i risultati si vedono: nei primi dieci mesi di quest’anno sono stati fermati 8.325 migranti, di cui 7.859 in mare e 466 a terra, prima dell’imbarco. Per tutti si è riaperta la porta dei lager. Sono risultati che Tripoli non mancherà di rivendicare come “meriti” per ottenere, dall’Italia e dall’Europa, ulteriori finanziamenti, sostegno, fornitura di navi e di mezzi terrestri, in aggiunta alla copiosa “lista” presentata nel 2017, in occasione della firma del memorandum, dal presidente Fayez Serraj: 10 navi, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 fuoristrada, 30 telefoni satellitari, visori notturni a infrarossi. C’è da credere, anzi – stando alle ultime indiscrezioni – che tra le nuove richieste figuri anche quel sistema di copertura radar lungo tutto il confine meridionale, in pieno Sahara, progettato da Finmeccanica e rimasto in sospeso dai tempi di Gheddafi. Di più. Non è un mistero che Tripoli punta a far revocare l’embargo sulle armi: finora non ci è riuscito, ma non è detto che, magari in prospettiva, non torni a giocarsi il “blocco dei migranti” come moneta di scambio per ottenere anche questo risultato.

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