Grecia: contro i profughi un muro anche in mezzo al mare

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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02 febbraio 2020

Non bastavano i muri “a terra”. Gli oltre 1.100 chilometri di barriere metalliche, alte dai 4 ai 6 metri e coronate dai micidiali rotoli di filo lamellato, costruite, ad esempio, intorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco o lungo la frontiera dell’Evros fra Grecia e Turchia come sull’intero confine tra la Bulgaria e la Turchia. Ora, per bloccare i profughi, arrivano anche i “muri” in mare: veri e propri muri fisici.

E’ una iniziativa del governo di Atene. Nel 2019 la Grecia è stato il paese europeo dove si è registrato il maggior numero di profughi e migranti arrivati, sia via mare che sulla rotta terrestre: in tutto, 74.482, più della metà dei 138.379 censiti nell’intera Europa. A parte alcune frange politiche e a parte soprattutto le situazioni limite di sovraffollamento create dalla stessa, miope politica di chiusura, nelle isole Egee (in particolare Lesbo, Samo, Chios), non ci sono state, da parte della popolazione, reazioni granché ostili. Anzi, da un sondaggio condotto dall’University Mental Health Institute tra gli studenti delle scuole medie e gli adolescenti in genere, risulta che il 57,7 per cento dei ragazzi intervistati mostra un atteggiamento amichevole nei confronti di rifugiati e migranti, il 5,3 si dice indifferente mentre manifesta una disposizione negativa solo il 17 per cento. Ma l’esecutivo di destra guidato da Kyriakos Mitsotakis ha deciso in partenza una stretta sull’accoglienza: ne parlava fin dalla vigilia delle elezioni vinte contro la coalizione di sinistra guidata dall’ex premier Alexis Tsipras, ed ora sta agendo di conseguenza.

L'ultimo atto, in linea con questi impegni, sono appunto le barriere fisiche da erigere in mare. Si tratta di una specie di diga galleggiante costruita con tubolari pneumatici: sarà alta almeno 50 centimetri sul pelo dell’acqua, lunga 2,7 chilometri e dotata di fari lampeggianti perché sia ben visibile anche di notte. A questo primo segmento se ne potranno aggiungere altri, fino a un totale di 15 chilometri. A quanto sembra di capire, sarà una sorta di barriera mobile, da rimorchiare e fissare, a seconda delle esigenze, lungo le rotte percorse dai migranti in fuga dalla Turchia e diretti verso Lesbo e le altre isole Egee: una barriera che potrebbe essere spostata o riproposta, di volta in volta, lì dove si viene in qualche modo a sapere che stanno puntando una o più barche di migranti. L’obiettivo, evidentemente, è quello di creare un ostacolo difficile da superare, ai limiti delle acque territoriali, dando così modo alla Guardia Costiera greca di intervenire e respingere con più efficacia, verso le coste turche, quelle barche cariche di disperati. Il costo iniziale previsto è di 500 mila euro, incluse le spese di manutenzione per quattro anni. Tre mesi il tempo per la realizzazione dal momento in cui sarà affidato l’appalto.

La notizia – anticipata dall’agenzia Associated Press e pubblicata dal quotidiano The National Herald – è emersa dopo che il Ministero della Difesa ha preso contatto con alcune società private per studiare e commissionare la costruzione della “diga”. Il nome in codice è “floating barrier system”. Il Governo non ha ancora descritto ufficialmente il progetto ma i cronisti dell’Associated Press riportano le dichiarazioni di un funzionario che ha accettato di parlare chiedendo in cambio, come tutela, il più stretto riserbo sul suo nome. “L’intero processo – ha precisato questa fonte dopo aver rivelato di cosa si tratta – è seguito dalla Difesa, ma la struttura in questione non avrà funzioni militari. Il suo uso avrà solo ‘finalità civili’, come accade ad esempio per le attrezzature dei campi che ospitano i migranti”. C’è da pensare, dunque, che la gestione pratica dovrebbe essere affidata alla Guardia Costiera o addirittura a dei contractors privati, magari gli stessi che si occuperanno della realizzazione e della manutenzione.

Questo “muro” fisico in mezzo al mare sembra essere comunque solo un punto di arrivo. In precedenza, a partire dalle prime settimane dopo l’insediamento, nel luglio 2019, il governo Mitsotakis ha costruito tutta una serie di “muri” politico-legali. Il punto culminante si è avuto all’inizio di novembre 2019, quando il Parlamento di Atene ha approvato una legge fortemente restrittiva in tema di immigrazione. Il provvedimento più significativo è quello che riduce enormemente le possibilità di presentare ricorso contro un rifiuto dell’asilo: in sostanza, una norma simile a quella italiana, contenuta nel decreto Minniti-Orlando, che ha abolito il secondo grado di giudizio in caso di respingimento della richiesta di asilo da parte delle commissioni provinciali, aprendo la strada all’espulsione o, di fatto, vista l’enorme difficoltà di eseguire i rimpatri, alla condizione di irregolarità per migliaia di persone, condannate a diventare “fantasmi” senza diritti. A questo si aggiungono il prolungamento della durata possibile di detenzione per i richiedenti asilo in attesa che la loro domanda venga esaminata e forti limitazioni al concetto di “vulnerabilità”, ovvero a quelle condizioni (a cominciare dallo stress legato alle sofferenze patite e alle esperienze traumatiche vissute durante la fuga, prima di arrivare in Grecia) che vengono in genere prese in considerazione nell’esame delle motivazioni e delle storie personali di ciascun profugo e sono alla base, spesso, dei cosiddetti “permessi per motivi umanitari” o simili. Non basta. E’ stato ampliato il numero dei paesi terzi ritenuti “sicuri”: nell’elenco diffuso dal ministro degli Esteri Nikos Dendias e da quello dell’Interno Mihalis Chrysohoidis sono entrati, in ordine alfabetico, Albania, Algeria, Armenia, Gambia, Georgia, Ghana, India, Marocco, Senegal, Togo, Tunisia, Ucraina. Secondo la denuncia di varie Ong, l’esame delle ragioni poste alla base della richiesta di asilo di persone originarie di questi Stati è diventato quasi una “formalità”, che si conclude quasi sempre con esito negativo, aprendo la strada, in sostanza, a veri e propri respingimenti di massa sulla base dello Stato di provenienza.

In linea con questa politica, alla Guardia Costiera e alla polizia di frontiera devono essere stati impartiti ordini di agire con maggiore “decisione” per impedire o quanto meno limitare, anche ricorrendo alla forza, l’arrivo di nuovi rifugiati. Lo confermano diversi rapporti e denunce (alcune documentate anche con immagini e filmati) fatte da varie Ong e le testimonianze di numerosi profughi che parlano senza mezzi termini di violenze e, a volte, di veri e propri pestaggi da parte di “persone in divisa” nei confronti di donne e uomini sorpresi ad esempio alla frontiera dell’Evros e costretti a rientrare in Turchia. Rapporti dello stesso genere, che chiamano in causa le forze di sicurezza greche, sono stati stilati anche dalle autorità di Ankara e la stampa turca ne ha parlato diffusamente.

Il Consiglio d’Europa non è rimasto inerte di fronte a questo “pugno di ferro” che sta andando molto al di là delle attese. La commissaria per i diritti umani, Dunja Mijatovic, si è detta particolarmente preoccupata per almeno due capitoli delle nuove norme. Il primo è l’estensione della durata della detenzione dei richiedenti asilo, in pratica una grave limitazione della libertà individuale, pari a una carcerazione subita senza alcuna “accusa” specifica e, ovviamente, senza aver commesso alcun reato. Poi, secondo punto, il rischio di una valutazione “superficiale” delle domande di asilo: un esame “pro forma” dall’esito scontato e, dunque, una violazione palese dei diritti di rifugiati e migranti.

Non risulta che Atene abbia mai risposto o, peggio ancora, che abbia mai dato peso agli interrogativi e alle contestazioni inoltrate da Bruxelles. Al contrario: ha rafforzato la linea dura. Lo dimostra, appunto, la recente decisione di erigere anche delle barriere fisiche in mezzo al mare, in modo che i profughi e i migranti non riescano nemmeno a mettere piede in Grecia e siano respinti direttamente verso la Turchia. In massa. A prescindere da chi siano, da dove vengano, da cosa li abbia spinti a intraprendere quella che è quasi sempre una fuga per la vita. Senza cioè tenere in alcun conto le loro storie e la sorte che li attende. Purché non arrivino.

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