Esposto all’Imo per demolire l’alibi della zona Sar libica

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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31 marzo 2020
La zona Sar libica è una finzione. Tripoli non ha nessuno dei requisiti essenziali per assumersi la responsabilità di gestire un’area di ricerca e soccorso in mare. Non ha nemmeno una centrale operativa in cui ricevere le chiamate d’emergenza per poi organizzare e coordinare le operazioni di salvataggio. Meno che mai ha una rete di centrali radio costiere secondarie. Non ha una flotta navale adeguata e la flotta di elicotteri ed aerei da ricognizione e soccorso semplicemente non esiste. In più, un aspetto fondamentale: la Libia non può in alcun modo essere considerata un “porto sicuro” mentre proprio di recente la Corte di Cassazione – riferendosi al caso di Karola Rackete, della Ong Sea Watch – ha ribadito che un intervento di soccorso in mare non può considerarsi compiuto fino a quando i naufraghi non vengono sbarcati, appunto, in un “porto sicuro”. Tutto questo è noto. Da sempre. Dal giorno stesso in cui la Libia si è auto-attribuita una zona Sar. Eppure l’Europa – ma in particolare l’Italia e Malta – si avvale di questa palese finzione per sottrarsi agli obblighi di soccorso alle barche di disperati che cercano la salvezza sulla sponda nord del Mediterraneo. Viene quasi da sospettare, anzi, che la Libia si sia inventata la sua zona Sar proprio obbedendo a “pressioni esterne”. In modo da fornire un alibi all’Italia, a Malta e, in definitiva, all’intera Unione Europea per tirarsi indietro.
E’ partendo da queste considerazioni che – sulla base di ricerche, studi e pareri elaborati da una equipe di esperti – il Comitato Nuovi Desaparecidos, la Fondazione spagnola Open Arms e Open Arms Italia, Progetto Diritti, alcuni studi giuridici che si occupano in particolare di immigrazione e diritti umani e il senatore Gregorio De Falco hanno inviato un esposto all’Organizzazione internazionale Marittima (Imo) perché la zona Sar libica sia cancellata dai registri internazionali che ne attestano l’esistenza. Perché di fatto è una zona Sar che esiste solo nominalmente e, come tale, anziché salvare vite, le espone a un rischio ancora maggiore. E, secondo punto, per demolire l’alibi dietro cui si nasconde, con infinita ipocrisia, l’Intera Unione Europea – Italia in testa – proseguendo l’ormai ventennale politica di chiusura e respingimento.
Oltre che all’Imo l’esposto è stato inviato per conoscenza alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, a cui si è rivolta proprio in questi giorni l’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim) in relazione ad alcuni casi di respingimento illegale operati dalla Libia sotto coordinamento europeo. Pubblichiamo di seguito la relazione che riassume e illustra le motivazioni e i contenuti dell’esposto.
L’esposto per chiedere ufficialmente la cancellazione e, dunque. l’espulsione della zona Sar libica dai registi dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo), rendendola così non più “operativa”, si fonda essenzialmente su quattro motivazioni:
Dotazioni e capacità tecniche. La Libia non ha neanche una minima parte dei titoli necessari per assumersi la responsabilità e dunque gestire una struttura complessa ed essenziale per la vita di migliaia di persone come una zona Sar. In particolare, non risulta che ci sia neanche una centrale Mrcc o anche Jrcc, con un ufficio operativo centrale e una rete di stazioni radio costiere, il che rende assolutamente impossibile non solo coordinare una operazione di ricerca e soccorso, ma addirittura ricevere le “chiamate” via radio che segnalano situazioni d’emergenza o inoltrano richieste di aiuto. Non a caso c’è il forte sospetto che il coordinamento sia svolto in realtà da navi militari italiane (un sospetto su cui sta indagando la magistratura) o, almeno in parte, da strutture maltesi, come è emerso dalle dichiarazioni rese da Neville Gafà 1, già stretto collaboratore dell’ex premier Joseph Muscat, nel contesto di alcune inchieste giornalistiche. A ciò va aggiunto che manca una adeguata flotta navale e aerea per la ricognizione e il salvataggio: le uniche unità marine disponibili sono quelle donate dall’Italia e non risulta sia operativo un solo aereo o elicottero.
Guardia Costiera 2. La Guardia Costiera libica, attore essenziale per gestire la zona Sar, di fatto non esiste come struttura organizzata, con un’unica catena di comando al servizio dello Stato. Esistono, piuttosto, tanti “comandi” locali, che sembrano spesso rispondere a potentati particolari, con propri interessi e una propria specifica organizzazione e sfera operativa. Il “modus operandi” degli equipaggi, inoltre, è stato più volte messo sotto accusa per il trattamento inumano riservato ai naufraghi, mentre la capacità e il sistema stesso di intervento, come dimostrano numerose denunce fatte dalle principali Ong, non di rado mettono in pericolo la vita stessa delle persone che si dovrebbero soccorrere.
Porto sicuro. La Libia non può considerarsi in alcun modo un “porto sicuro” dove far sbarcare i profughi/migranti naufraghi intercettati in mare. Per i profughi e i migranti intrappolati all’interno dei suoi confini (e in particolare entro i confini della Tripolitania) la Libia è, al contrario, un autentico inferno, costellato di lager dove morte, torture, stupri, lavoro schiavo, soprusi e violenze di ogni genere sono la pratica quotidiana. Lo dimostrano le cronache degli ultimi anni e le numerose denunce delle principali Ong internazionali ma, ancora di più, lo dimostrano i ripetuti, terribili rapporti dell’Unhr, dell’Oim e della stessa missione Onu. Non a caso la Corte d’Assise di Milano, nella sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un trafficante somalo, riferendosi al campo di Bani Walid, sostiene che l’unica immagine adeguata per descrivere quella struttura (che in Europa ci si ostina spesso a definire “centro di accoglienza” o al massimo “centro di detenzione”), è in realtà quella dei lager nazisti. E d’altra parte, come hanno ripetuto anche in questi giorni, l’Unhcr e l’Oim, appellandosi alla comunità internazionale, continuano da anni a insistere che occorre portare via dalla Libia quanti più profughi/migranti possibile e nel più breve tempo possibile, cominciando, come primo passo, a chiudere, smantellare e svuotare tutti i centri di detenzione. A questo quadro si sommano gli effetti devastanti della guerra civile che si è riacutizzata dall’aprile 2019 con la lunga battaglia per il controllo di Tripoli e che ha colpito più volte, con morti e feriti, anche numerosi profughi insieme alla popolazione civile. Vale la pena ricordare, alla luce di tutto questo, che lo sbarco dei naufraghi in un “porto sicuro” è parte essenziale, anzi, il necessario, indispensabile coronamento di ogni operazione di salvataggio, come ha confermato proprio in questi giorni la Corte di Cassazione nella sentenza “Carola Rakete” sul caso della nave Ong Sea Watch 3, messa sotto accusa per essere entrata senza “nulla osta” prima nelle acque territoriali italiane e poi nel porto dell’isola di Lampedusa.
Respingimenti indiscriminati di massa. Intercettare e bloccare in mare le barche cariche di profughi/migranti da parte della Marina o della Guardia Costiera libiche non può definirsi in alcun modo una operazione di salvataggio. Si tratta, piuttosto, ogni volta, di respingimenti indiscriminati di massa attuati nei confronti delle persone a bordo di quelle barche, riportate indietro contro la loro evidente volontà. Una volontà disperata, che i profughi/migranti talvolta manifestano addirittura gettandosi in acqua piuttosto di essere costretti a salire sulle presunte unità di soccorso che, come sanno bene, li ricondurranno in Libia, riconsegnandoli all’inferno dal quale erano riusciti a fuggire, correndo mille rischi. In sostanza, una pratica che appare in netto contrasto con la “legge del mare”, il diritto internazionale, la convenzione di Ginevra del 1951 e la stessa Costituzione italiana. Eppure – vale la pena ricordarlo – solo dal primo gennaio ad oggi oltre 2.200 persone hanno subito questo sopruso: tanti sono i migranti che la Guardia Costiera libica asserisce di aver “salvato”.
Conclusioni. L’Italia e l’Europa non possono non essere a conoscenza di questa situazione. Anzi, di questa realtà. Eppure dal mese di giugno del 2018 usano la zona Sar libica come pretesto per continuare ed anzi accentuare il ruolo di “gendarme dell’immigrazione” nel Mediterraneo centrale conferito negli anni alla Libia, attraverso tutta una serie di accordi internazionali: il Processo di Khartoum ( novembre 2014), i trattati di La Valletta (novembre 2015) il memorandum Italia-Libia (febbraio 2017). Non meno importante, in questo contesto, risulta il recente accordo a quattro (Italia, Malta, Germania, Francia) firmato a La Valletta nel settembre 2019: accordo che si basa appunto sulla presunta esistenza di una zona Sar libica e che, in uno dei capitoli principali, ribadisce il compito affidato alla Guardia Costiera di Tripoli.
Confermano questa scelta europea ed italiana il crescente disimpegno nelle operazioni di soccorso dall’estate del 2018 in poi e, di contro, i casi sempre più numerosi in cui le centrali operative italiana e maltese invitano a “rivolgere a Tripoli” le richieste di soccorso arrivate anche in circostanze estremamente drammatiche. Senza contare il sospetto di qualche “sconfinamento guidato” di motovedette libiche anche al di fuori della zona Sar di Tripoli. Il caso più recentesi è registrato il 17 marzo 2020, quando 49 migranti individuati da Alarm Phone e lasciati senza soccorsi per almeno un paio di giorni nella zona Sar maltese, sono stati riportati in Libia dalla Guardia Costiera di Tripoli sotto il coordinamento di Malta e di Frontex: un autentico “respingimento di massa premeditato” che l’Oim non ha mancato di segnalare alla Procura presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia.
E’ una condotta che chiude gli occhi di fronte a quello che accade in Libia e lascia inascoltati tutti gli appelli dell’Onu e, da ultimo, anche quello di Dunja Miijatovic, nella sua veste di presidente della Commissione europea per i diritti umani. Eppure è di tutta evidenza che “chiudere gli occhi” di fronte all’inferno a cui sono condannati i profughi/migranti intrappolati o rimandati in Libia, equivale a rendersi direttamente complici delle morti, delle violenze, delle sofferenze inumane subite da migliaia di persone. Una complicità che non può certamente essere cancellata dal pretesto o, più precisamente, dall’alibi costituito dalla presunta zona Sar libica. Espellere dai registri Imo la zona Sar libica – rendendola anche ufficialmente nulla come è già in concreto – servirà tuttavia a smantellare questo ”alibi”. E a richiamare l’Italia e l’Europa alle proprie responsabilità.
Note
1 – Neville Gafà, attivista del partito laburista, ha parlato esplicitamente di un accordo segreto tra La Valletta e Tripoli, a livello di governi, per gestire i flussi di immigrazione attraverso il Mediterraneo. Secondo le sue dichiarazioni, si sarebbe stabilito, in concreto, un coordinamento tra le forze armate maltesi (le Afm, che includono anche la Marina) e la Guardia Costiera libica. Alle unità navali libiche spetterebbe il compito di intercettare i barconi, su indicazione dell’Afm, prima dell’ingresso nelle acque maltesi, per riportarli in Libia. Ciò spiegherebbe anche certi misteriosi sconfinamenti delle motovedette libiche fuori dalla loro nominale zona Sar. E ne consegue che tutto il compito di monitoraggio e coordinamento sarebbe stato assunto da Malta (anche nelle acque di competenza libica), lasciando a Tripoli l’incombenza di bloccare e riportare indietro i profughi/migranti. In sostanza, una serie di respingimenti di massa pre-organizzati, forti anche della presenza della zona Sar libica per giustificare l’azione delle motovedette di Tripoli.
Una conseguenza di questo accordo potrebbe anche essere l’attacco condotto dalla Guardia Costiera libica contro la nave Alan Kurdi, della Ong tedesca Sea Eye, l’undici novembre 2019, mentre stava conducendo una operazione di soccorso in acque internazionali. Su questo attacco la magistratura e la polizia tedesca hanno aperto un’inchiesta.
2 – In altre realtà le operazioni di soccorso in mare non sono affidate alla Guardia Costiera o alla Marina militare ma a una organizzazione appositamente costituita. Nel Mediterraneo è il caso, ad esempio, della Spagna, dove opera da circa vent’anni il Salvamento Maritimo, un servizio non militare, dedicato esclusivamente ai compiti di ricerca, recupero e salvataggio, che opera capillarmente in tutti i mari di competenza spagnola, dotato di una base operativa centrale e distaccamenti in numerosi porti, oltre che di una flotta navale ed aerea con unità e velivoli progettati e costruiti in funzione del compito specifico a cui sono destinati.
E’ di tutta evidenza che non esiste in Libia una organizzazione del genere che possa ”giustificare” le enormi carenze che rendono pressoché nulla ed anzi spesso dannosa l’azione della Guardia Costiera nel campo dei soccorsi in mare.

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