Emergenza coronavirus: la sorte riservata ai migranti dirà come ne usciremo

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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02 aprile 2020
Il 23 marzo il ministro Luigi Di Maio ha chiuso i porti: “Niente più sbarchi in Italia dalla Libia perché c’è il coronavirus”. Lo ha detto “a muso duro”, in videoconferenza, al Consiglio affari esteri dell’Unione Europea, facendo riferimento ai migranti che potrebbero essere tratti in salvo dalla flotta Ue della missione Irina, che dal primo aprile ha sostituito la missione Sophia, per il controllo militare del Mediterraneo contro il contrabbando di armi e petrolio da e per la Libia. La presa di posizione italiana ha creato uno stallo che è stato possibile superare solo grazie alla disponibilità della Grecia, interessata ai finanziamenti promessi da Bruxelles e, soprattutto, alla presenza di navi europee nelle sue acque come “monito” alla Turchia, dopo i contrasti sorti con Ankara su vari punti, a cominciare dall’enorme ampliamento unilaterale del quadrante di Mediterraneo di competenza turca deciso da Erdogan. Il risultato è che i profughi/migranti eventualmente tratti in salvo su una barca in difficoltà a qualche decina di miglia di Lampedusa – il tratto di mare dove in questi anni sono stati più numerosi gli interventi di recupero – dovranno essere portati lontanissimo, a centinaia di miglia, in evidente contrasto con la legge del mare e il diritto internazionale, che prevedono lo sbarco dei naufraghi nel più vicino porto sicuro. Sembra quasi l’ultimo atto dello smantellamento – voluto essenzialmente dall’Italia – della missione Sophia, provvisoriamente rinnovata mesi fa, in attesa di Irina, ma senza la dotazione di navi e limitata alla ricognizione aerea: ovvero, messa nell’impossibilità pratica di effettuare soccorsi.
Una chiusura analoga a quella decisa in mare si rileva a terra. Nella serie di decreti emanati dal Governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus non c’è una sola riga dedicata a profughi e migranti. Nulla per gli ospiti dei Cas. Nulla per i prigionieri dei centri per il rimpatrio. Nulla per le decine di migliaia di “fantasmi” creati e gettati per strada, allo sbando, dai decreti sicurezza firmati dal premier Conte nel precedente governo, con la chiusura degli Sprar e l’abolizione della tutela umanitaria. Nulla per i tantissimi braccianti magari irregolari ma essenziali per la nostra economia. In particolare per l’agricoltura. Di questi ultimi – ma solo di questi ultimi – si è ricordata il 27 marzo la ministra delle politiche agricole Teresa Bellanova, ammonendo che “occorre regolarizzare subito i lavoratori stranieri”. Forse avrebbe fatto meglio a insistere perché il problema fosse inserito da subito nei decreti anti coronavirus, ma è già qualcosa. Resta tuttavia grande perplessità per la motivazione addotta alla base della richiesta: “I raccolti sono a rischio”. Sembra di capire, cioè, che quei lavoratori andrebbero regolarizzati “perché servono”, anzi, sono spesso la spina dorsale della nostra agricoltura. Non perché quello alla salute e alla vita stessa sia un loro diritto inalienabile, a prescindere da un eventuale tornaconto economico. In una situazione emergenziale come quella che si sta vivendo, va bene comunque, ma anche questa proposta sembra figlia della mentalità diffusa che vede nei migranti soltanto delle “braccia utili” e non persone, uomini e donne con una propria vita fatta di problemi, quotidianità, relazioni, sogni. Alcuni parlamentari della sinistra hanno presentato degli emendamenti, su questi temi, ai decreti iniziali: c’è solo da sperare che siano accolti.
L’Italia non è sola in questo ennesimo giro di vite alla politica di chiusura e respingimento adottata dall’Unione Europea, e in particolare, da alcuni Stati, sulla questione migranti. Quasi ogni giorno arrivano notizie di barche cariche di disperati respinte dalla Marina greca e da quella cipriota nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Uno dei casi più dolorosi è il blocco di una barca giunta a brevissima distanza dalla costa di Cipro il 29 marzo. A bordo c’erano circa duecento siriani fuggiti quasi tutti da Idlib e Aleppo, le due città più colpite dalla guerra negli ultimi mesi. Invano è stato chiesto alla polizia di far sbarcare almeno i bambini e le donne che avevano dei familiari residenti da anni nella zona greca dell’isola: costretti a invertire la rotta, tutti quei profughi si sono rifugiati a Cipro Nord. Atene ha usato lo stesso pugno di ferro in mare e a terra. Anzi, lungo il confine dell’Evros, a Kastanies, tre profughi sono stati colpiti e uccisi da colpi di arma da fuoco esplosi dal versante greco della frontiera, contro la folla di disperati che cercava di passare, non si sa se dalla polizia o dalle squadracce neofasciste che sono state in pratica lasciate agire indisturbate per giorni. Tre vittime e, in aggiunta, decine di feriti: un’azione di contrasto durissima – peraltro lodata dall’Unione Europea – che non può trovare alcuna giustificazione, come si è tentato di fare, citando la “provocazione” di Ankara che, venendo meno al patto di contenimento dei migranti firmato nel 2016 in cambio di 6 miliardi di euro, ha annunciato l’apertura improvvisa delle proprie frontiere verso l’Europa.
Non mancano tuttavia esempi di tutt’altro genere. Dal 23 marzo, il giorno in cui Di Maio ha annunciato la chiusura dei porti italiani nei confronti dei profughi/migranti eventualmente soccorsi sulla rotta del Mediterraneo centrale, la Spagna ha tratto in salvo, fino al primo aprile, oltre 400 migranti. Più di 300 è andata a recuperarli in pieno Atlantico, su barche che, partite dall’estrema costa meridionale dell’ex Sahara Spagnolo, ma anche da spiagge più a sud, in Mauritania e in Senegal, arrancavano verso le Canarie. Una, in particolare, è stata avvistata da un aereo da ricognizione dopo due giorni di ricerche e raggiunta a 220 chilometri da Gran Canaria. Nonostante la tragedia del coronavirus – il motivo citato dall’Italia per chiudere i porti – la Spagna non ha minimamente ridotto e meno che mai smantellato il Salvamento Maritimo, il servizio di ricerca e soccorso in mare forse più moderno ed efficiente d’Europa, attivo da oltre vent’anni. Coronavirus o no, insomma, vale sempre, l’ammonimento lanciato circa tre mesi fa al governo di Madrid e all’Europa, dopo un doloroso naufragio in Atlantico, da Angel Victorio Torres, il governatore delle Canarie: “La Spagna e l’Europa hanno il dovere di cercare di risolvere le situazioni di crisi che costringono tanti giovani africani ad abbandonare il proprio paese e ad imbarcarsi. Ma se questi giovani riescono intanto a imbarcarsi, è compito della Spagna e dell’Europa, andarli a cercare e a salvare in mezzo al mare. E se ce la fanno ad arrivare, è dovere della Spagna e dell’Europa organizzare un sistema di accoglienza adeguato, che li aiuti a inserirsi tra noi”.
Sembra ispirarsi a questi stessi principi la decisione del Governo socialista portoghese, guidato da Antonio Costa, di concedere il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati che ne hanno fatto richiesta. Una sanatoria “istantanea”, dettata proprio dall’emergenza del coronavirus. In questo modo, i migranti arrivati in Portogallo avranno non solo il diritto di accedere a tutti i servizi sanitari, senza alcun ostacolo, in questo momento così difficile, ma anche la possibilità di cercare un lavoro, usufruire dell’assistenza pubblica, affittare una casa, aprire un conto in banca. “Le persone – ha spiegato la portavoce del ministro degli Interni, Claudia Veloso – non devono essere private del diritto alla sanità e ai servizi solo perché la loro domanda non è stata elaborata. In questa emergenza i diritti dei migranti vanno garantiti”. E’ una scelta, anzi, un esempio che in Italia dovrebbero sollecitare la massima attenzione per quelle migliaia di donne e uomini trasformati dalla legge stessa in non persone senza diritti, costrette a vivere in centri di accoglienza sovraffollati, in spazi abbandonati, ruderi, campi improvvisati, insediamenti di tende e baracche grandi come interi paesi. Tutti quei “fantasmi” di cui finora ci si è ricordati al massimo per raccomandargli di lavarsi le mani “per non diffondere il contagio”, quando non hanno neanche l’acqua da bere.
Questi episodi e le “risposte” che ne sono derivate da parte di Governi e istituzioni hanno trovato poco spazio nella grande attenzione riservata alla pandemia di coronavirus, ormai da mesi, da parte della politica, dei media, della gente. Non sempre e non dappertutto, ma in generale è così. Eppure si tratta di una questione di grande rilievo. Prima o poi si verrà fuori dalla situazione drammatica che l’intero pianeta e in particolare l’Europa stanno vivendo. Il punto, però, è “come” se ne verrà fuori. Ecco, allora: forse il capitolo che riguarda i profughi e i migranti, nel più vasto contesto della pandemia, è uno degli indici più significativi per capire dove stiamo andando. Troppi segnali indicano che, più o meno consapevolmente, si stanno costruendo nuovi muri per escludere “l’altro”. E mai come in questi anni “l’altro” è stato rappresentato in gran parte dai migranti. Gli ultimi davanti ai quali c’è sempre qualcuno che “conta di più”. Mentre mai come in momenti così difficili è essenziale “restare umani”: avere costantemente come guida il rispetto dei diritti e delle libertà che sono il fondamento della nostra democrazia e del nostro “vivere insieme”. In particolare, i diritti e le libertà proprio degli ultimi. La Spagna e il Portogallo sembrano aver fatto questa scelta di civiltà: ne usciranno sicuramente meglio e più forti di chi sembra invece voglia arroccarsi. E voltarsi dall’altra parte.

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