La guerra in Libia: profughi e migranti come carne da cannone

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
18 maggio 2020
Profughi e migranti come carne da cannone nella guerra tra il governo di Tripoli guidato da Fayez Serraj, il Gna, e l’esercito del generale Khalifa Haftar, capo militare della Cirenaica, sostenuto dal Parlamento di Bengasi. Circolavano diverse voci e indizi che in Libia accadesse anche questo orrore. Significativo, in particolare, un episodio segnalato mesi fa a Gharyan dopo l’offensiva delle truppe fedeli a Serraj per riconquistare la città, nel contesto della battaglia di Tripoli scatenata da Haftar nel mese di aprile 2019: alcuni eritrei hanno riferito che un gruppo di miliziani che combattono per il Gna, fatta irruzione nel centro di detenzione per migranti, avrebbero cercato di costringere diversi prigionieri ad arruolarsi con loro. “La situazione – hanno riferito – si era fatta pesantissima. Dicevano che se non ci fossimo arruolati sarebbe stata la prova che non eravamo profughi ma mercenari di Haftar camuffati. Hanno desistito solo dopo aver saputo che tra di noi c’erano numerosi malati di Tbc… Deve essere prevalsa la paura del contagio”.
Questa testimonianza non ha avuto seguito: confusa nella lunga catena di soprusi e di morte in cui sono intrappolati i profughi in Libia, si è dispersa ed è stata presto dimenticata. E invece, a quanto pare, è verosimile che fosse il segnale di una pratica sempre più diffusa. La base di questi reclutamenti forzati sarebbero soprattutto alcuni centri di detenzione controllati da gruppi “autonomi” di miliziani. Ci sono sospetti, però, che siano coinvolti anche campi profughi “ufficiali”, formalmente gestiti dal Governo di Tripoli ma dove certe organizzazioni di trafficanti e le loro milizie hanno campo libero, controllandone a volte interi settori.
Uno dei centri di reclutamento si troverebbe nel campo profughi gestito da miliziani all’interno o nei pressi della ex manifattura tabacchi a Tripoli. Lo ha denunciato un ragazzo sudanese originario del Darfur che vi è stato rinchiuso a lungo prima di riuscire a scappare. Si chiama Jansour, ha 19 anni e ora vive nascosto a Tripoli. Raggiunto al telefono, ha raccontato la sua storia. “Io ci sono stato in quel campo – ha esordito – Lì comandano tutto i miliziani. I prigionieri rischiano ogni giorno di essere presi e portati come manovalanza o bassa forza sulla linea dei combattimenti”. Jansour è finito in quel lager alla fine di una penosa odissea. Costretto ad abbandonare il Darfur a causa della guerra civile che lo insanguina da anni, si è rifugiato in Libia, dove è riuscito a trovarsi un lavoro per sopravvivere. Gli avvenimenti dell’ultimo anno, con la Libia ormai totalmente fuori controllo, i bombardamenti che investono anche il cuore di Tripoli, il potere crescente di gruppi armati che vedono nei migranti “merce” preziosa da sfruttare, lo hanno obbligato a fuggire di nuovo. Questa volta verso l’Europa, che gran parte dei profughi intrappolati in Libia vedono ormai come l’unica via di salvezza. Ha trovato un imbarco pagando centinaia di dollari a un trafficante, ma il suo gommone è stato intercettato dalla Guardia Costiera libica, alla quale l’Italia e l’Europa hanno affidato il lavoro sporco di bloccare in mare i profughi per respingerli in massa verso la costa africana. Subito dopo lo sbarco, lui e gli altri sono stati trasferiti al campo della manifattura tabacchi.
“ Ci siamo subito dovuti accorgere – ha spiegato Jansour – che non era un campo normale, per quanto normale possa essere un campo di prigionia in Libia. Io e gli altri detenuti eravamo di fatto nelle mani dei miliziani a cui è affidata l’intera struttura. Una loro ‘proprietà’. Una proprietà da usare anche nella guerra in corso. Così molti vengono presi e portati sul fronte delle milizie che combattono a favore del governo di Tripoli. Il criterio di selezione è uno solo: basta che si venga ritenuti abbastanza in forza per trasportare armi e munizioni. E una volta selezionati, non è possibile sottrarsi. Io, per fortuna, sono riuscito a fuggire in tempo. Io e un’altra novantina di prigionieri. Abbiamo approfittato di un momento di confusione nel quartiere dov’è il campo e siamo usciti, disperdendoci rapidamente, prima che i miliziani avessero il tempo di reagire. Ora sono nascosto in casa di un amico a Tripoli. Non so dove siano finiti gli altri e se li abbiano catturati di nuovo”.
Il campo, intanto, continua a riempirsi dei profughi e dei migranti bloccati in mare. Senza che nessuno si preoccupi di controllare che cosa vi accade. Anzi, spesso senza che si sappia nemmeno che le persone intercettate e riportate indietro dalla Guardia Costiera vengono fatte sparire in quel lager. Uno degli ultimi casi risale alla notte tra il sette e l’otto maggio scorso, quando 25 migranti sono stati riportati a Tripoli da una motovedetta libica. L’ufficio locale dell’Oim ha cercato di organizzare un minimo di assistenza, ma ha potuto solo constatare che i naufraghi erano stati rinchiusi in una struttura non controllata dal Dcim (l’autorità libica che gestisce i centri di detenzione: ndr) e, per di più, sconosciuta. Quale fosse quasi certamente questa struttura lo ha poi comunicato via twitter un attivista libico per i diritti umani, Abdulaziz, segnalando che il nuovo, più importante campo gestito dalle milizie è appunto la manifattura tabacchi.
Un episodio ancora più recente estende il sospetto che un’attività di reclutamento forzato sia in corso anche nel campo di Zawya, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli. Si tratta di uno dei lager più tristemente famosi, da tempo ribattezzato dai profughi Osama Prison, dal nome del trafficante, Osama il Libico, indicato da molte testimonianze come il vero padrone della struttura, gestita “ufficialmente” dal Dcim attraverso un funzionario governativo che si fa vedere sempre vestito in divisa militare: un certo Mohammed, secondo quanto riferito da numerosi prigionieri. La denuncia, in questo caso, viene da un gruppo di detenuti che la notte tra il 13 e il 14 maggio ha chiesto aiuto a don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia. Nel campo – hanno riferito – ci sono attualmente circa 200 persone, tra cui 6 bambini e 10 donne, alcune delle quali in stato di gravidanza. In maggioranza eritrei con qualche decina di etiopi, sono gli ultimi di un gruppo di 800 profughi che nei mesi scorsi l’Unhcr ha ottenuto di trasferire dal centro di detenzione di Qasr Bin Gashir, 34 chilometri a sud di Tripoli, che stava per essere investito dall’avanzata delle truppe di Haftar e dove il sovraffollamento, le malattie, i maltrattamenti continui rendevano la vita un inferno. In breve tempo, però, la vita si è rivelata impossibile anche a Zawya. Molti sono stati spostati a Tripoli, ma l’esplosione della pandemia di coronavirus ha bloccato i trasferimenti e peggiorato ancora di più la situazione all’interno del campo.
“ A parte le vessazioni e i soprusi giornalieri – hanno riferito a Mosè Zerai – non c’è alcuna forma di assistenza e prevenzione per contrastare il rischio di contagio. Cerchiamo di fare da soli, mantenendo per quanto è possibile un certo distanziamento di sicurezza. Negli ultimi giorni, però, un certo Osama, un capo miliziano che spadroneggia nel campo con la complicità del gestore ufficiale, Mohammed, ha cominciato a dirci che dobbiamo stringerci, per lasciare libere certe strutture. Noi ci siamo opposti, facendo presenti le ragioni di sicurezza sanitaria. E’ andata avanti così fino a quando, in piena notte, verso le due prima dell’alba, questo Osama si è presentato con una decina di uomini armati, lasciando intendere che non avrebbe esitato ad ordinare di sparare se non ci fossimo spostati. Eravamo pieni di paura, ma non abbiamo ceduto. E di fronte a questa resistenza compatta non hanno osato andare oltre. Osama però, andandosene, ha ammonito che sarebbe tornato con più uomini e che questa volta non si sarebbe limitato alle minacce, anche a costo di provocare un bagno di sangue. Temiamo che abbia bisogno dei capannoni dove siamo alloggiati per un giro di traffici poco puliti. Noi stessi possiamo testimoniare di aver visto uno strano, frequente andirivieni di gruppi di giovani africani che vengono rinchiusi nei vari padiglioni per un breve periodo e dopo un po’ ripartono”. Un andirivieni del genere è il meccanismo tipico della compravendita e della conseguente cessione di giovani migranti tra diverse bande di trafficanti. E il fine di questa compravendita può essere di vario tipo: riscatti per il rilascio, lavoro schiavo e, nella situazione attuale, forse anche reclutamento obbligato come combattenti o magari, più semplicemente, come “portatori forzati” di armi e munizioni sulla linea dei combattimenti, una pratica già sperimentata in passato ad esempio a Kufra o nella stessa Tripoli, nel 2014, durante la battaglia per il controllo dell’aeroporto, quando “manovalanza di guerra” veniva prelevata nel campo di Misurata.
“ Se le cose denunciate hanno fondamento, e non c’è motivo di dubitarne – rileva Mosè Zerai – è assurdo che tutto questo possa accadere in un centro di detenzione che è nei registri delle autorità libiche eppure sembra diventato una specie di base di trafficanti per il loro mercato di esseri umani. E’ necessario che la comunità internazionale e in particolare l’Italia e l’Europa intervengano pesantemente sul Governo di Tripoli perché quanto meno si faccia chiarezza e si garantisca la sicurezza dei prigionieri”.
D’altra parte, Osama il Libico risulta tra i più noti e feroci trafficanti degli ultimi anni. Sul suo conto e, più in generale, sulla situazione nel campo di Zawya, è in corso un’inchiesta della Procura di Palermo, nata sulla scia di una prima indagine aperta dalla Procura di Agrigento dopo le denunce di alcuni ex prigionieri arrivati in Sicilia e che, interrogati dalla polizia italiana dopo lo sbarco, lo hanno indicato come il presunto capo di una vasta organizzazione criminale dedita al traffico di uomini. Notizie analoghe su Zawya sarebbero arrivate alla Procura presso la Corte penale internazionale dell’Aia ed è presumibile che Osama sia uno dei trafficanti contro cui si sta procedendo a livello internazionale. Notizie che sarebbero contenute, in particolare, anche in un dossier firmato dal segretario generale dell’Onu Antonio Gutierrez nel contesto dei rapporti sulla situazione in Libia presentati dal 2016 in poi dalle Nazioni Unite. E l’inferno di Zawya è stato confermato nei suoi dettagli più terribili, infine, dalla relazione redatta nel marzo scorso da Medici per i Diritti Umani, basata su numerose testimonianze. “Eravamo in 350 nella Osama Prison – ha detto un ragazzo sudanese – Sono rimasto lì fino al dicembre del 2019. Ci picchiavano e ci torturavano…”.
Questo ragazzo è poi riuscito a pagare il riscatto ed ha potuto imbarcarsi proprio a Zawya, raggiungendo l’Italia. Ma qual è la sorte di chi non riesce a pagare? Forse anche quella di essere fatto sparire per essere poi venduto come “portatore schiavo” di armi e munizioni sulla linea del fronte della guerra in corso?
Con la collaborazione di Amr Adam

Leggi anche