Migranti. Silenzio, segreto e “desaparicion”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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21 maggio 2020
Una barca con 50 profughi/migranti (ma forse più di 70) scomparsa nel Mediterraneo, a meno di 30 miglia da Lampedusa. In pratica, alle soglie delle acque italiane. Ore e ore di buco nero, finché se ne è ritrovata una traccia all’improvviso, la notte tra il 17 e il 18 maggio, ma solo perché si è verificata un’emergenza imprevista, che non è stato possibile tenere nascosta.
Il silenzio
Partito da un punto imprecisato della costa libica, il battello – quasi certamente un gommone – ha arrancato forse per un intero giorno verso nord, senza essere visto da nessuno. Se ne è avuta notizia soltanto la notte tra il 16 e il 17 maggio, quando la centrale operativa di Alarm Phone ha captato una disperata richiesta di aiuto: “Siamo in pericolo: il mare è molto mosso e il nostro scafo sta imbarcando acqua…”. In quel momento era nella posizione di 35 gradi e 3 primi di latitudine nord e 12 gradi e 21 primi di longitudine est: zona Sar di Malta ma, per una motovedetta, poco più di un’ora di navigazione da Lampedusa. Appena un passo.
Verso l’una di notte le comunicazioni si sono interrotte. Da quel momento, silenzio totale. Silenzio dalla barca. Silenzio, soprattutto, dalle centrali operative Mrcc di ricerca e soccorso di Malta e dell’Italia, informate dell’emergenza da Alarm Phone subito dopo la prima chiamata Sos e poi costantemente, fino all’ultimo, drammatico contatto. Le condizioni meteomarine erano molto difficili. Pessime per un fragile gommone sovraccarico, privo di ogni dispositivo di sicurezza: vento a oltre 30 nodi con raffiche improvvise anche più forti, onde alte almeno due metri. Eppure, nessuna motovedetta di soccorso è partita da Malta, né tantomeno dall’Italia, trincerata probabilmente dietro l’ormai solito “non è affar mio”, costruito sull’alibi che la richiesta di aiuto arrivava da un tratto di mare della zona Sar maltese.
Che forse qualcosa doveva essersi mosso si è intuito prima dell’alba di domenica 17, quando il Fuji Bay, un mercantile liberiano proveniente dal Libano e diretto ad Algeciras, in Spagna, ha deviato e rallentato la navigazione all’altezza delle coordinate indicate da Alarm Phone, un punto tra le 26 e le 28 miglia di distanza da Lampedusa e circa 140 da La Valletta. Logico pensare che la nave sia stata mobilitata per una operazione di soccorso coordinata da Malta, titolare della zona Sar. Il comportamento del Fuji Bay sembra confermarlo: velocità di appena un nodo all’ora e manovre come di pattugliamento. E’ andato avanti così per qualche ora, poi ha ripreso la rotta per la Spagna e si è allontanato rapidamente.
Il segreto
Nulla di nulla nelle ore successive. Salvo la voce che i naufraghi fossero stati presi a bordo da uno dei tre pescherecci (Dar Al Sala 1, Tremar e Salve Regina) della flotta fantasma allestita da Malta per effettuare i respingimenti di massa “segreti” in Libia, in aperta, evidente violazione del diritto internazionale, della “legge del mare” e nel caso – come sembra – c’entri anche l’Italia, in contrasto con la nostra stessa Costituzione. Quel peschereccio è in effetti poi risultato il Tremar, che era in mare, per qualche motivo, già da giovedì 14 maggio. E’ stata, in sostanza, la fotocopia dell’operazione compiuta il 13 e 14 aprile per il gommone abbandonato per giorni alla deriva e su cui sono morte 12 persone, con la mobilitazione in extremis del cargo portoghese Ivan e con l’intervento successivo del Dar Al Salam 1, che poi ha portato i naufraghi a Tripoli. L’unica differenza è che stavolta non si è saputo neanche dell’avvenuto “soccorso” (se “soccorso” si può chiamare) né, tantomeno, dove fossero finiti i naufraghi. A scoprire le carte, costringendo a confermare l’intervento del Tremar, lasciato poi a stazionare da qualche parte al largo di Lampedusa, è stato un evento inatteso: una donna in avanzato stato di gravidanza si è sentita male e stava per dare alla luce il bimbo a bordo del peschereccio, costringendo così l’Italia a inviare una motovedetta per condurla a terra insieme al marito. Sbarcata a Lampedusa, la puerpera è stata trasferita d’urgenza in elicottero in un ospedale di Palermo, mentre il marito è finito sulla Moby Zazà, la nave hotspot-quarantena che fa la spola tra l’isola e Porto Empedocle. Gli altri naufraghi sono stati lasciati in mare, in attesa di risolvere il braccio di ferro tra Malta e l’Italia su chi debba accoglierli.
La desaparicion
Il tutto, ancora una volta, nel più stretto segreto: non una sola parola né da Roma, né da La Valletta. Come sempre più spesso accade su episodi che riguardano i migranti – in mezzo al Mediterraneo come “a terra”, in Libia o altrove – si è aperta una enorme, oscura voragine di segreto. Un silenziamento totale che ricorda la tecnica argentina e cilena della “desaparicion”: far sparire o, quanto meno, non far conoscere o far conoscere il meno possibile i fatti, i protagonisti, le vittime del problema, in modo che del problema non si parli, creandogli attorno una spessa coltre di normalità apparente e di legalità formale, così da evitare o comunque contenere ogni forma di opposizione. Perché, assai spesso, se di un problema non si parla e l’opinione pubblica, la gente, non ne è al corrente o ne conosce poco o nulla, è come se non esistesse.
“ Non se ne parla e, dunque, non esiste”. Ecco: sembra questo il principio. E sembra stranamente accettarlo anche buona parte dei “grandi media”, i quali da tempo dedicano sempre meno spazio e appena uno sguardo distratto alla tragedia dei profughi/migranti. E invece, anche se non se ne parla e sembra ormai una notizia di routine, il problema esiste. Eccome se esiste. Ed è drammatico come non mai. Continuano ad alimentarlo le tantissime situazioni di crisi estrema che costringono ogni settimana migliaia di donne e uomini ad abbandonare la propria terra. Continua ad alimentarlo, in particolare, l’inferno della Libia, dove l’Italia, Malta e l’Europa non esitano tuttora a rimandare centinaia e centinaia di persone, con l’aiuto della Guardia Costiera di Tripoli: oltre 3.500 dall’inizio dell’anno. Quell’inferno dove profughi e migranti sono intrappolati in autentici lager. Oppure abbandonati per strada senza avere di che sopravvivere. O addirittura ridotti a carne da cannone per la guerra in corso da parte delle milizie che li hanno magari catturati subito dopo l’ennesimo respingimento condotto dalla marina libica con le navi e i mezzi forniti dall’Unione Europea.

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