La Valletta dopo Tripoli: sotto accusa all’Imo la zona Sar maltese

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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14 luglio 2020
Dopo la Libia, Malta. All’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo) è stato presentato un esposto anche sulla zona Sar (ricerca e soccorso) di cui si è assunta la responsabilità La Valletta. Ne è promotore lo stesso gruppo che poco più di tre mesi fa, in marzo, ha sollevato il caso della zona Sar libica: il Comitato Nuovi Desaparecidos, la Fundacion Pro Activa Open Arms di Badalona, Open Arms Italia, la onlus Progetto Diritti, gli avvocati Alessandra Ballerini, Silvia Calderoni e Stefano Greco, il senatore Gregorio De Falco.
Per la Libia la contestazione si basa sul fatto che, risultando evidente la totale mancanza di requisiti per poter organizzare, gestire, coordinare e condurre operazioni di soccorso, la zona Sar istituita nel giugno 2018 si è rivelata una pura finzione: un alibi per giustificare il ruolo di gendarme anti immigrazione attribuito dalla Ue a Tripoli, affidando alla guardia costiera libica il lavoro sporco di bloccare in mare e riportare indietro i profughi/migranti. A prescindere dalla sorte a cui andranno incontro e ignorando che la Libia non può assolutamente considerarsi un “porto sicuro”, ma perfettamente in linea con la politica di esternalizzazione e di totale chiusura delle frontiere adottata dall’Unione Europea e, in particolare, dall’Italia e da Malta. Nel caso di Malta, il punto sono invece l’estensione enorme della zona Sar che si è attribuita e i contrasti che ne sorgono con l’Italia.
Vasta circa 250 mila chilometri quadrati, nel cuore del Mediterraneo centrale, l’area di competenza maltese, verso ovest, finisce per sovrapporsi a quella italiana e arriva a lambire Lampedusa, includendo anche tratti di mare che distano appena 25-30 miglia dall’Arcipelago delle Pelagie ma sono a oltre 100-110 miglia da La Valletta. Una situazione quanto meno anomala e che, soprattutto, non essendo mai stati firmati “accordi di collaborazione” tra i due Stati, finisce per provocare equivoci e contrasti pressoché quotidiani, con un continuo scarico reciproco di competenze su chi debba intervenire, su quando e come operare, sulla scelta del più vicino porto sicuro di sbarco. Il risultato è che, proprio sulla rotta dei migranti “in fuga per la vita” dall’inferno libico, si è creata una grande zona grigia, quasi un mare di nessuno, dove accade di tutto. E dove il rispetto dei diritti umani, a cominciare da quello alla vita stessa, è diventato lettera morta. Da anni.
La richiesta all’Imo, allora, è quella di ridimensionare la zona Sar maltese a favore di quella italiana, almeno nella fascia più vicina alle Isole Pelagie, in modo da eliminare gli equivoci e le controversie legati alla confusa situazione attuale. Va da sé che, implicitamente, una eventuale nuova delimitazione delle due zone Sar comporta che Roma e La Valletta dovranno stabilire finalmente quelle “intese di gestione” e coordinamento che finora sono inspiegabilmente mancate, nonostante siano rese obbligatorie dalle norme e dalle convenzioni internazionali che entrambe hanno sottoscritto.
A sostegno di questa istanza si fa notare che Malta, pur dotata di una adeguata centrale di coordinamento Rcc, non dispone o comunque mostra di non utilizzare mezzi e unità navali o aerei sufficienti per svolgere e garantire le operazioni di soccorso su una superficie di mare così vasta. Del resto, la stessa Malta, per la sua natura di piccola isola, si è più volte dichiarata non in grado di diventare uno dei punti di riferimento principali per i flussi di migranti/naufraghi che scappano dalla Libia verso l’Europa. Non solo. Nei mesi scorsi è emerso che La Valletta – ignorando per l’ennesima volta che la Libia non può considerarsi in alcun modo un porto sicuro dove riportare i migranti, come denuncia da anni l’Onu attraverso l’Oim e l’Unhcr – ha stretto un patto segreto con Tripoli, impegnandosi a monitorare le barche dei migranti per poi segnalarle e consegnarle alla Guardia costiera libica, anche quando si trovino alle soglie o addirittura all’interno della zona Sar maltese. Patto ora praticamente ufficializzato nei giorni scorsi. Non a caso anche le Nazioni unite hanno manifestato forti preoccupazioni per la condotta maltese, sia in relazione alle operazioni di soccorso ai migranti/naufraghi, sia riguardo alle disposizioni impartite alle navi commerciali eventualmente intervenute in aiuto a barche in difficoltà (con particolare riferimento alle indicazioni del Pos, il “porto sicuro”), sia alle misure adottate nei confronti delle navi umanitarie delle Ong.
Non risulta che preoccupazioni analoghe siano state espresse dall’Italia, che pure, essendo il principale “Stato limitrofo” alla zona Sar maltese, si trova coinvolta quotidianamente in tutte le operazioni e gli episodi che vi si svolgono, talvolta ad appena 25 miglia da Lampedusa. Un “silenzio” che non è stato infranto nemmeno quando è emersa la notizia del patto segreto tra Malta e la Libia per organizzare respingimenti e deportazioni di massa in mare, nonostante abbia suscitato una vasta eco anche a livello internazionale. Evidentemente, si fa notare nell’esposto, “l’Italia,, non denunciando quell’accordo sulla gestione dei naufraghi e dei Pos come previsto dalla normativa Msc 2004, dimostra di avere un interesse specifico in tal senso”.
A conferma di come questo “mare di nessuno”, che si è creato di fatto tra Malta e l’Italia, provochi morti e sofferenze continue, viene citata una serie di episodi emblematici. “Ne abbiamo scelti sette – dicono i promotori dell’esposto – Quelli più gravi, segnati spesso da un numero enorme di vittime, ma casi analoghi, sia pure meno noti, sono all’ordine del giorno”. Eccone un sunto:
Caso Bufadel (maggio 2007) . Ventisette migranti sono costretti a restare aggrappati per circa 24 ore a gabbie di allevamento dei tonni in attesa che qualcuno si decida a salvarli. Dopo aver fatto naufragio in mezzo al Mediterraneo, chiedono aiuto al rimorchiatore maltese Bufadel, che stava appunto trainando quelle gabbie verso la Spagna e che però si rifiuta di farli salire a bordo. I naufraghi rimangono così in precario equilibrio sulla passerella delle gabbie fino al giorno successivo, quando finalmente, interviene la nave italiana Orione in seguito a un accordo tra Malta, Italia e Libia (competente per quel tratto di mare). E’ verosimile che sul rifiuto del Bufadel abbia pesato il caso del peschereccio spagnolo Francesco Catalina, rimasto bloccato per una settimana di fronte alle coste maltesi perché La Valletta si rifiutava di far sbarcare i 51 migranti/naufraghi che aveva a bordo, dopo averli soccorsi.
Caso Pinar (aprile 2009). Lungo braccio di ferro tra Malta e l’Italia per lo sbarco di 154 naufraghi e un cadavere presi a bordo nel canale di Sicilia dal mercantile turco Pinar il 16 aprile 2009. La Valletta, coordinando le operazioni di soccorso, ordina al cargo, diretto a Sfax, in Tunisia, di fare rotta verso Lampedusa, che risulta il porto sicuro più vicino. Roma non autorizza l’ingresso nelle acque italiane e il mercantile resta a lungo bloccato a 25 miglia da Lampedusa. La situazione a bordo è drammatica, con persone malate o comunque allo stremo, ma il ministro degli interni Roberto Maroni insiste che i naufraghi vanno trasferiti a Malta mentre La Valletta replica che la linea scelta dai Roma è “inaccettabile”. Alla fine, grazie anche alle forti pressioni esercitate dall’Unione Europea, è l’Italia a cedere: lo sbarco avviene il 20 aprile a Porto Empedocle
Strage dei bambini siriani (ottobre 2013). Benché gravemente danneggiato all’altezza della linea di galleggiamento da raffiche sparate dalla Guardia Costiera libica, un vecchio peschereccio riesce ad arrivare a meno di 40 miglia da Lampedusa, quando inizia ad affondare. Da bordo viene lanciata una disperata serie di Sos. Il natante si trova in zona Sar maltese ma il porto e la costa più vicini sono italiani. Ed a Lampedusa, appunto, viene raccolta la prima richiesta di aiuto. Comincia allora un rimpallo di responsabilità sulla conduzione dei soccorsi tra Italia e Malta che si protrae per oltre cinque ore e mezzo. Un periodo di tempo enorme, durante il quale nessuno interviene, nonostante Lampedusa sia a meno di due ore di navigazione per una motovedetta e, per di più, mentre in zona, a circa 10 miglia di distanza, c’è la Libra, una nave della Marina Militare italiana, che resta del tutto inerte. I primi interventi iniziano quando la barca è ormai quasi interamente affondata. Si registrano 268 vittime, di cui almeno 60 bambini. Per questa tragedia è in corso un procedimento giudiziario di fronte al Tribunale di Roma.
Caso Diciotti (agosto 2018). La nave Diciotti della Guardia Costiera italiana salva 177 migranti nella zona Sar maltese ma a una distanza da Lampedusa molto inferiore a quella da La Valletta. In pratica, poco al di fuori delle acque “italiane”. Secondo Roma lo sbarco deve avvenire a Malta e, benché si tratti di una nave militare italiana, non ne autorizza il rientro, bloccandola in mare e accusando il Governo maltese di “comportamento inqualificabile”, come scrive il ministro dei trasporti Danilo Toninelli, dal cui dicastero dipende peraltro la Guardia Costiera e dunque la stessa nave Diciotti. La replica di Malta, con il ministro dell’interno Michael Farrugia, è altrettanto dura: “La Guardia Costiera italiana ha intercettato i migranti all’interno della zona Sar maltese, ma esattamente appena fuori territorio italiano, senza coordinamento con il competente Rcc, soltanto per impedire che entrassero appunto nelle acque italiane”. Dopo giorni di stallo, la spunta Malta: la Diciotti sbarca i naufraghi in Italia.
Strage di Pasquetta (aprile 2020). Un gommone partito il 9 aprile da Garabulli, a est di Tripoli, con 63 profughi a bordo, in gran parte eritrei, viene lasciato alla deriva per quasi cinque giorni, senza ricevere alcun tipo di soccorso. Le prime richieste di aiuto vengono intercettate tra il 10 e l’11 aprile da Alarm Phone, che informa subito sia Malta che l’Italia. Nessuno interviene. Nulla si muove neanche dopo la segnalazione dell’agenzia europea Frontex, che comunica la presenza di quello e altri 3 gommoni in difficoltà alle soglie o addirittura già all’interno della zona Sar maltese. Dei quattro natanti in totale, due riescono a raggiungere da soli la Sicilia (Pozzallo e Porto Palo). Un terzo viene soccorso dalla nave Aita Mari di una Ong basca e il quarto continua a rimanere alla deriva. Alarm Phone rilancia più volte l’allarme e la domenica di Pasqua, 12 aprile, comunica che alle 14,34 ha perso ogni contatto con il natante. In quel momento il gommone è a meno di 30 miglia da Lampedusa. Nonostante le condizioni meteomarine siano in rapido peggioramento, non si registra ancora alcun intervento fino alle 22,30 di lunedì 13 aprile, quando Malta lancia finalmente l’allerta per tutte le navi in transito nella zona. Il dispaccio viene raccolto dal cargo portoghese Ivan, in navigazione da Khoms a Genova, che modifica la rotta e avvista il gommone, ma non può intervenire direttamente a causa delle dimensioni della nave e delle condizioni del mare. I primi soccorsi arrivano solo verso le 5 del mattino di mercoledì 14 aprile, ad opera del peschereccio Mae Yemanja, partito da La Valletta, una delle navi della “flotta fantasma” organizzata da Malta per i respingimenti in Libia. E in Libia, in effetti, vengono condotti tutti i naufraghi, a oltre 110 miglia di distanza, mentre Lampedusa è ad appena 25 miglia.. Nel frattempo, 7 sono annegati: 3 nel tentativo di raggiungere a nuoto una nave in transito e 4 dopo essersi abbandonati in acqua per la disperazione. A Tripoli arrivano solo 51 persone ancora in vita: 5 muoiono per ipotermia e sfinimento prima dello sbarco, 2 ancora a bordo del gommone poco prima del recupero e 3 sulla nave dei soccorsi, durante la rotta verso Tripoli.
Caso Maren (maggio 2020). Una barca con oltre 60 persone, partita dalla Tunisia, tra il 20 e il 21 maggio arriva a circa 30 miglia a ovest di Lampedusa ma in zona Sar maltese. Alle 20,45 del giorno 20 viene mobilitato, presumibilmente dalla centrale Rcc di La Valletta, il cargo cipriota Maren, partito da Sfax e diretto a Tangeri. La nave staziona in zona, facendo evidenti manovre di ricerca, per tutta la notte e l’intera mattinata del 21, fino alle ore 14, quando riprende la rotta per il Marocco, senza prendere a bordo i naufraghi. Non risulta che ci siano stati altre operazioni di soccorso. Sicuramente non da parte dell’Italia, che pure è vicinissima. Solo in seguito si scoprirà che deve essere intervenuto “in segreto” uno dei pescherecci della flotta fantasma di Malta.
Caso Talia (luglio 2020). La mattina del 4 luglio viene segnalata una barca in grave pericolo nella zona Sar maltese ma a poco più di 30 miglia da Lampedusa. A bordo ci sono 52 persone, partite due giorni prima dalla Libia. Viene mobilitata la nave libanese Talia, adibita al trasporto di animali vivi, che fa appena in tempo a prendere i naufraghi a bordo mentre si avvicina una tempesta. Effettuato il salvataggio, il cargo, che era diretto in Spagna, è costretto a rimanere in mare per giorni, con i naufraghi in condizioni estremamente precarie, perché sia Malta che l’Italia negano lo sbarco. Solo la notte del giorno 8 arriva il nulla osta da La Valletta.
Da tutto questo, conclude l’esposto, nella condotta di Malta appare evidente il contrasto con gli obblighi assunti in base alle convenzioni internazionali sui soccorsi in mare e sulla tutela dei diritti dei rifugiati. In particolare:
– la Convenzione Onu del 1982 sul diritto del mare (Convenzione Unclos) che impone ad ogni Stato l’obbligo di istituire e mantenere attivo “un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso”.
– La Convenzione internazionale del 1974 (Convezione Solas), che richiede agli Stati “di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in aree lungo le loro coste”.
– La Convenzione internazionale del 1979 (Convenzione di Amburgo) in base alla quale gli Stati sono tenuti a “garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali la persona viene trovata”.
– La Convenzione di Ginevra del 1951 che all’articolo 33 vieta il respingimento per chi ha diritto ad una protezione internazionale.
“ La finzione della zona Sar libica e le enormi incongruenze della zona Sar maltese – dichiara Arturo Salerni, presidente del Comitato Nuovi Desaparecidos, a nome di tutti i firmatari – costituiscono un ‘combinato’ micidiale per la vita e i diritti di migliaia di persone. I profughi/migranti vengono abbandonati a se stessi persino quando diventano naufraghi, in mezzo al Mediterraneo. Talvolta per sempre, assai spesso per giorni interi. E anche quando arriva una qualche nave di soccorso, l’obiettivo resta quello di respingerli e deportarli di nuovo nell’inferno della Libia. Tutto, purché non sbarchino in Europa. Il nostro obiettivo è cercare di scardinare questo ‘combinato’ come primo passo per una politica europea, ma in particolare italiana, del tutto diversa sull’immigrazione. Una politica che prima di tutto punti a salvare in mare le vite in pericolo. Ma, più in generale, una politica sull’immigrazione che metta al centro le persone, le loro storie, i motivi che le hanno scacciate dalle loro terre… I migranti, insomma. E non, come si fa ormai da almeno vent’anni, il sistema per non farli arrivare, questi migranti. A qualsiasi prezzo”.

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