Sette harragas asfissiati in un container: ritrovati solo dopo tre mesi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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28 ottobre 2020
Sono morti in sette, dopo un’agonia lunghissima, chiusi nel container dove si erano nascosti per varcare i confini di Schengen e raggiungere l’Europa. E quel container, finito in Paraguay anziché in Europa, è diventata la loro tomba per quasi cento giorni, fino a quando, giunto finalmente a destinazione, è stato aperto, mostrando l’ennesima, crudele tragedia dell’immigrazione forzatamente clandestina dal Sud del mondo.
Sono giovani tra i venti e i trent’anni: quattro marocchini, due algerini, un egiziano. Anche loro, come tantissimi altri nel Maghreb ma, più in generale, in tutto il mondo arabo, ragazzi spinti a lasciare la propria terra – a entrare nella sempre più vasta schiera degli harragas, “i giovani che bruciano le frontiere” – da situazioni che sentono più che mai inaccettabili. Invivibili. Una condizione così diffusa che, riferisce Arab Youth Survey, accomuna ormai quasi la metà della gioventù araba: secondo una ricerca, condotta in 17 paesi, oltre il 42 per cento della fascia tra i 18 i 24 anni ritiene che emigrare in un altro Stato sia l’ultima prospettiva di futuro rimasta. Molti, almeno il 15 per cento, non si limitano a riferire una intenzione ma cercano attivamente di imboccare questa strada. A qualsiasi costo. “Gli harragas rischiano la morte per poter vivere”, ha spiegato la docente di psicologia clinica e sociologa algerina Khedidja Mokedden in una bella intervista rilasciata al quotidiano Liberté Algerie. E spesso, molto spesso, la decisione di andarsene arriva dopo aver lottato a lungo per cambiar le cose nel proprio paese: tanti, ad esempio, hanno dato tutto il supporto che potevano alle manifestazioni antigovernative che dall’inizio del 2019 si sono protratte a lungo in Libano, Algeria, Iraq, Sudan, Marocco o, specie negli ultimi mesi, in Egitto.
Ecco, quei sette ragazzi appartenevano a questa gioventù che si vede costretta a scommettere tutto su una fuga per la vita. La via più diretta sono state per anni le rotte del Mediterraneo verso l’Europa. Ma questa via è diventata sempre più stretta, fino a chiudersi quasi completamente in forza degli accordi voluti dall’Unione Europea, che hanno esternalizzato i confini della “Fortezza Europa”, spostandoli sempre più a sud – sulla sponda mediterranea meridionale o addirittura in pieno Sahara – e affidandone la sorveglianza alla polizia degli Stati stessi da cui i giovani fuggono. Ma polizia, muri e barriere non bloccano i flussi dei profughi/migranti. Al massimo rendono i percorsi più difficili e mortali oppure li deviano su altre rotte. Quella atlantica delle Canarie, ad esempio. O quella “di terra” attraverso i Balcani, esplosa nel 2015 e tuttora frequentatissima, nonostante i tempi e i rischi enormi.
I sette giovani trovati morti dopo quasi tre mesi nel container dove si erano nascosti per superare i bastioni della Fortezza Europa, sono vittime appunto degli orrori della “via balcanica”. Sono partiti in periodi e da luoghi diversi ma tutti hanno scartato l’opzione di affrontare su una barca di trafficanti la traversata del Mediterraneo, dove le vittime sono sempre più numerose e le prospettive di essere bloccati e riportati indietro, magari in uno dei lager libici, quasi matematiche: solo sulla rotta “centrale”, dalla Libia, 824 morti o dispersi dall’inizio dell’anno e quasi 10 mila respingimenti in mare. Hanno scelto, invece, di tentare la sorte via terra, risalendo dalla Turchia la penisola balcanica fino al confine orientale italiano o all’Austria, in cerca di un posto dove vivere nello spazio Schengen. A Istanbul sono arrivati in aereo, senza necessità di visti e senza grossi problemi. Una volta in Turchia si sono preoccupati di “sparire”, raggiungendo la frontiera con la Grecia, lungo il fiume Evros, che hanno trovato il modo di passare nonostante la pressoché totale militarizzazione del territorio di confine da parte di Atene e la barriera d’acciaio e rotoli di filo lamellato che segue per decine di chilometri la linea frontaliera. La tappa successiva è stata la Serbia, probabilmente attraverso la Macedonia, sfidando anche qui controlli di polizia sempre più rigidi. E in Serbia, appunto, è maturata la strage. Passare da qui (o dalla Bosnia) in Croazia è la parte più dura e pericolosa dell’itinerario balcanico. La frontiera croata è una delle più presidiate d’Europa, ma i controlli continuano in tutto il territorio nazionale: nelle città, nelle campagne e nei boschi, lungo ogni ferrovia, strada o sentiero che conduca a nord. E la polizia usa sempre il pugno di ferro. Oltre ogni limite, come dimostra tutta una serie di inchieste e denunce che hanno evidenziato, anche con raccapriccianti immagini fotografiche, torture, maltrattamenti, soprusi, violenze, umiliazioni di ogni genere. Forse proprio per aggirare questo calvario qualcuno deve aver proposto la possibilità di entrare in Croazia e poi proseguire verso l’Italia o l’Europa Centrale nascosti in un container. Probabilmente è proprio in questi giorni – tra la fine di luglio e l’inizio di agosto – che i destini dei sette ragazzi, arrivati in Serbia separatamente o in coppie di amici, si sono incrociati e si è formato il piccolo gruppo.
Il container scelto era pieno di sacchi di fertilizzanti prodotti in Serbia e destinati a una ditta che opera in Paraguay. Doveva essere imbarcato ai primi di agosto su un cargo, in un porto della Croazia. E’ da pensare che proprio questa prima destinazione abbia tratto in inganno chi ha proposto questo sistema di fuga, senza capire che il porto croato era solo la tappa iniziale di un viaggio lunghissimo, fino in America. Di sicuro non se ne sono resi conto i ragazzi, convinti che sarebbero arrivati da qualche parte in Europa. Lo conferma il fatto che, come ha potuto appurare la polizia paraguayana dai resti ritrovati, la riserva di acqua e di cibo predisposta per i giorni di trasferimento clandestino, bastava soltanto per pochissimi giorni, giusto il tempo, appunto, di arrivare in uno Stato vicino, nell’Unione Europea. Senza contare il problema dell’aria: è intuitivo che si rischia di morire asfissiati rimanendo troppo a lungo, per di più in sette, in uno spazio ristretto, sigillato ermeticamente, come un container.
La tragedia è iniziata nel momento stesso che i sette ragazzi si sono nascosti dietro i sacchi di fertilizzanti e il portellone del container è stato richiuso, magari proprio da chi ha indicato loro questa strada per proseguire la fuga. La morte deve essere sopraggiunta in breve tempo: forse, viste le temperature di agosto, prima ancora che il container venisse caricato sul cargo in Croazia, oppure nei primissimi giorni di navigazione. Appare evidente che i ragazzi devono aver cercato di fare di tutto per uscire da quella trappola mortale, tentando di forzare il portellone o di richiamare l’attenzione di qualcuno all’esterno, ma nessuno si è accorto di nulla fino a quando, intorno al 20 ottobre, circa tre mesi dopo, il container è stato finalmente aperto presso la ditta paraguayana che ha acquistato il carico di fertilizzanti in Serbia. Non si saprà mai chi dei sette si è arreso prima e chi ha resistito di più, assistendo via via alla morte dei compagni, uno dopo l’altro, fino a cedere a sua volta. Ma è fin troppo immaginabile la disperazione in cui devono essere piombati quei ragazzi quando si sono accorti che il container a cui avevano affidato la propria vita stava diventando la loro tomba.
La notizia della strage è arrivata in Marocco, Algeria ed Egitto non appena si è intuita l’identità delle vittime, circa tre giorni dopo la scoperta dei cadaveri. La ha comunicata, attraverso i canali diplomatici, il procuratore, Marcelo Saldivar, che si sta occupando delle indagini. L’inchiesta verrà estesa alla Serbia e alla Croazia, per risalire a chi ha suggerito o addirittura indotto i sette ragazzi a chiudersi in quella trappola mortale. Perché appare evidente che non possono aver fatto tutto da soli. “C’è da augurarsi, ovviamente – dice Arturo Salerni, presidente del Comitato Nuovi Desaparecidos – che eventuali trafficanti o comunque tutte le persone coinvolte in qualche modo in questa tragedia, vengano identificati e assicurati alla giustizia. Ma pesanti responsabilità, quanto meno morali, sono già individuabili: sono la politica di chiusura e respingimento messa in campo dall’Europa negli ultimi vent’anni e l’indifferenza con cui gran parte dell’opinione pubblica, della “gente comune”, si gira dall’altra parte davanti al dramma di milioni di persone costrette a fuggire dalla propria terra, rifiutando di ascoltarne il grido d’aiuto. Ecco perché processi e condanne certamente servono, ma da soli non bastano. La fine orribile di questi sette ragazzi, che hanno sfidato e incontrato la morte ‘per poter vivere’, lancia un messaggio pesantissimo a tutti noi. Non lasciamolo cadere come troppe volte è accaduto negli ultimi vent’anni. Altrimenti nessuno potrà considerarsi assolto”.

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