Senegal e Gambia: quei pescatori sommersi dalla “rapina del mare”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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24 novembre 2020
“Non c’è più pesce nel nostro mare. Prima prendevamo fino a 90 casse di sardine al giorno. Adesso, cinque o sei a stento”: più che una dichiarazione è un sfogo quello a cui si è lasciato andare Dembo Turay, un pescatore di Bakau, vicino a Banjul, la capitale, parlando con un cronista di Anadolu Agency, che ha appena pubblicato un servizio sulla crisi della pesca in Gambia. Vari compagni gli hanno fatto eco, denunciando che in pochi anni non solo la quantità di pescato è crollata di almeno l’ottanta per cento, ma che per poter riempire almeno un po’ le reti bisogna spingersi molto più al largo, con spese e rischi maggiori. E gli effetti si sono innescati a catena, a cominciare dai prezzi, che sempre più famiglie non possono permettersi. “Un chilo di ladyfish o di barracuda – ha specificato Andourahman, un commerciante, ad Anadolu Agency – ormai costa cinque dollari al chilo. Sono pesci grandi, che arrivano a pesare fino a cinque o sei chili e, dunque, ad almeno 20 dollari di costo, una cifra inavvicinabile per la gente comune”.
In Senegal la situazione è la stessa. Basta aggirarsi e porre qualche domanda tra la folla che ogni giorno anima i grandi porti pescherecci di Dakar, Saint Louis, Mbour, Joal Fadiouth o le ampie spiagge dei villaggi sparsi lungo tutta la costa al rientro dei cayucos, le grandi piroghe da pesca – strette, lunghe, coloratissime – tipiche dell’intera costa atlantica africana. Le risposte sono sempre velate di preoccupazione e pessimismo. Specie in prospettiva, perché se la crisi continua, rischia di saltare un settore vitale che, secondo i dati della Banca Mondiale, impiega oltre 600 mila uomini e donne in Senegal, mentre in Gambia, pur non incidendo molto sul Pil nazionale, è comunque essenziale per decine di migliaia di persone, sia pure spesso come attività di sussistenza. Sarebbe una catastrofe in due stati che già ora sono in coda nell’Indice comparativo di sviluppo umano (Isu), la graduatoria sul benessere stilata dall’Onu, tenendo conto dell’aspettativa di vita, del tasso di istruzione e del reddito nazionale lordo pro capite: su 188 paesi esaminati, il Senegal figura al 166° posto e il Gambia addirittura più in basso di otto gradini, al numero 174.
Può sembrare strano perché si tratta di una delle coste nota tradizionalmente come tra le più pescose del pianeta. Una ricchezza che ha dato da vivere a intere generazioni. Per secoli. La “crisi del pescato” si è presentata solo negli ultimi anni. Sempre più rapida e più evidente. Ma non è arrivata per caso. A provocarla è stato il water grabbing, l’omologo in mare del land grabbing: tante, troppe concessioni cedute a grandi compagnie straniere per la pesca industriale, senza alcun serio programma di tutela e garanzie. La piccola pesca ne è stata via via uccisa. E, insieme, sta morendo tutto un sistema di vita. Ai tipici cayucos, che pescano con reti da posta o lunghe coffe di ami, fanno concorrenza pescherecci oceanici, talvolta autentiche navi-officina, che trainano enormi reti a strascico, “arando” il mare e molto spesso anche i fondali. Distruggendo tutto. Secondo Greenpeace sono più di 400 le unità di questo tipo che operano nelle acque dell’Africa Occidentale e, in particolare, appunto in Senegal e in Gambia: vengono soprattutto dalla Cina, dalla Russia e dall’Unione Europea, che nel 2018 ha concluso un accordo che consente di catturare, nelle sole acque gambiane, 3.300 tonnellate di tonno e 750 di nasello.
Un disastro. Ma un disastro annunciato fin dalle primissime concessioni. Questi pescherecci dovrebbero in teoria operare al di là della fascia delle 9 miglia dalla riva. In teoria, perché in realtà non c’è un solo pescatore, in Senegal come in Gambia, che non sia pronto a giurare di averne visti, senza che nessuno sia intervenuto a fermarli, anche a sole poche centinaia di metri dalla riva, dove le acque sono più pescose ma dove la rapina è maggiore e la devastazione del fondo desertifica il mare. Il danno economico è enorme: un rapporto di Frontiers Marine Science e quello più recente di un gruppo di studi su un’economia oceanica sostenibile concordano che la pesca illegale comporta una perdita di 2,3 miliardi di dollari all’anno complessivi per paesi della costa atlantica africana come il Senegal, il Gambia, la Guinea e la Guinea Bissau, la Mauritania, la Sierra Leone. Sarebbero indispensabili più controlli. E più rigorosi. Ma, di fatto, controlli efficaci quasi non ce ne sono: un po’ per lassismo, un po’ perché mancano i mezzi per farli. Il Gambia – stretto intorno al fiume omonimo e completamente circondato dal Senegal – ha una linea di costa che non arriva a cento chilometri ma una zona economica esclusiva – la cosiddetta Zee: l’area di mare in cui uno Stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse – di oltre 25 mila chilometri quadrati. La Zee del Senegal è quasi sette volte più vasta: circa 160 mila chilometri quadrati. Aree impossibili da controllare senza una marina efficiente, dotata di motovedette veloci per il pattugliamento e gli eventuali interventi. Ma né Dakar, né tantomeno Banjul dispongono di mezzi adeguati. E c’è da sospettare che, mezzi a parte, manchi talvolta anche la volontà.
E’ emblematico, in particolare, il caso del Gambia, la cui marina, per ammissione dello stesso ministro della pesca, James Gomez, è in grado di vigilare su meno di un terzo della propria area Zee, lasciando così quasi campo libero ai grossi pescherecci che arrivano a gettare le loro le reti a traino quasi alle soglie dei villaggi della costa. Il più delle volte senza conseguenze. Sulla scia delle proteste dei pescatori locali, nel 2015 il governo ha vietato tutta la pesca industriale, bloccando le concessioni. Due anni dopo, nel 2017, il nuovo governo ha però revocato il divieto e rilasciato 73 nuove concessioni. Non solo, nel 2018 Gambia e Senegal si sono accordati per consentire ai pescherecci industriali di attraversare le rispettive acque, quasi unificando di fatto le due zone economiche esclusive: una libertà di movimento che, in condizioni normali, sarebbe magari positiva ma che, in mancanza di controlli contro gli abusi, rischia di impoverire ancora più rapidamente le acque costiere. Non a caso la Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ha messo in guardia contro l’accresciuto sfruttamento delle specie ittiche che vivono più sotto costa e che costituiscono da sempre una delle principali basi alimentari di gran parte della popolazione: basti ricordare che il pesce copre oltre la metà del consumo proteico del Gambia mentre, nel caso del Senegal, secondo la Banca Mondiale si arriva addirittura al 75 per cento.
L’aspetto più paradossale, anzi, è proprio questo: la pesca industriale nelle acque gambiane e senegalesi toglie risorse al fabbisogno alimentare. Lo ha denunciato ripetutamente la Fao, rilevando come gran parte del pescato finito nelle reti dei pescherecci industriali diventi olio di pesce oppure, ancora di più, farina per l’acquacoltura o per gli animali da allevamento, anziché essere destinato al consumo umano. E la percentuale maggiore del pesce destinato a questo uso “industriale” è proprio quello più umile, consumato dalle fasce più povere della popolazione, ma sempre più difficile da trovare. Come le sardine ed altre specie minute che prima si catturavano a casse ma che ora sono quasi introvabili sul mercato al minuto. La conferma arriva proprio dal Gambia, dove i pochi pescherecci da traino fermati dalla polizia per essere entrati entro la fascia proibita delle 9 miglia nautiche dalla costa, erano quasi tutti carichi di prodotto da consegnare sia alle tre fabbriche di farina esistenti nel paese, sia a impianti stranieri. Non per niente diverse organizzazioni ambientaliste, sia gambiane e senegalesi che internazionali, si sono schierate da tempo contro la produzione industriale di farina di pesce: “Oltre che l’ecosistema di una costa bellissima – denunciano – sono in gioco la copertura del fabbisogno alimentare di milioni di persone e un intero comparto economico e di lavoro, che va magari ammodernato e sviluppato, ma che non può perdere quelle caratteristiche che per secoli gli hanno consentito di coniugare in equilibrio la tutela dell’ambiente e le esigenze della vita quotidiana della gente”.
Ecco, “la vita della gente”. Sono anni che i sindacati dei pescatori protestano di avere bisogno per sopravvivere di quel pesce che finisce nelle industrie di farina alimentare per gli animali. Un vero e proprio grido d’aiuto. Inascoltato. Così i vecchi cayucos servono sempre più spesso per fuggire anziché per pescare. Come fugge chi nella propria terra non ha più speranze di futuro.
Non sono molti, negli ultimi anni, i giovani senegalesi e gambiani arrivati in Italia. Ma in Spagna sono tanti: la maggioranza tra i quasi 20 mila sbarcati da gennaio ad oggi alle Canarie. E la maggioranza tra le vittime della difficile, pericolosissima rotta atlantica, che in poco più di dieci mesi è arrivata a un conto di morte terribile: da un minimo di 650 a oltre mille vite spezzate, se si tiene conto anche dei barconi spariti in mare senza lasciare traccia. Ci sono villaggi che hanno perso in questo modo molti dei loro giovani, come Soumbdiom, nei sobborghi di Dakar, ma anche altri molto più piccoli nella zona di Mbour o alla foce del Gambia. Per mettere fine a questa strage sabato 21 novembre si è svolta a Dakar una grande marcia silenziosa: l’unico “urlo” sono state le grandi scritte “Ora basta” sugli striscioni portati in corteo da mille mani unite insieme. Basta a tante morti assurde, basta all’indifferenza che le circonda, basta alle cause che costringono a fuggire su fragili cayucos per centinaia di miglia in pieno Atlantico, perché non ci sono canali legali di immigrazione. E tra queste cause non manca, in particolare, il water grabbing.

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