Etiopia: non solo la guerra in Tigrai

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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08 dicembre 2020
Si fa presto a dire Etiopia. In realtà ci sono tante Etiopie: un mosaico di ben 84 etnie. La più numerosa è quella degli Oromo. Sono il 35,3 per cento (oltre 36 milioni) dell’intera popolazione nazionale e la loro vasta regione, al centro del paese, include anche Addis Abeba. La più piccola è quella dei Karo, una tribù della bassa Valle dell’Omo, ridotta a meno di tremila anime, affine ai 50 mila Hamer e considerata “primitiva” dai popoli dell’altipiano. In mezzo, tutti gli altri gruppi. In particolare, in ordine di grandezza, gli Ahmara (26,2 per cento), anch’essi dislocati nella zona centrale, l’etnia di tutti i principali negus, inclusi gli ultimi due (Hailé Selassié e Menelik II) e la cui lingua, l’amarico, è quella etiopica ufficiale. Poi i Somali dell’Ogaden (6 per cento); i tigrini (5,9 per cento), nel Tigray, a nord-est, al confine con l’Eritrea e il Sudan; i Sidama (4,3), l’etnia più numerosa del Sud; i Gurage (2,7) nel Sud-Ovest; i Welaita (2,3), sempre nel Sud, e la nebulosa dei gruppi minori (17,3 per cento)1.
Il punto è tenerlo insieme questo mosaico di etnie, spesso in contrasto tra di loro ma, non di rado, in conflitto anche con il governo centrale, per difendere le proprie autonomie e il proprio modo di vita contro decisioni in cui non si sentono coinvolte: nella Valle dell’Omo ne è un esempio tangibile il gigantesco progetto idroelettrico impostato sulla serie di dighe Gibe.
A sollevare con forza il velo su questa realtà è stata, negli ultimi tempi, la guerra in Tigrai. Da una parte il governo di Macalle eletto nelle contestate consultazioni del settembre 2020 che, guidato dal Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf), ha contestato ad Addis Abeba di soffocare le libertà e le autonomie regionali, nel quadro di una politica di forte accentramento; dall’altra il premier Abiy Ahmed, che ha accusato il Tigrai di ribellione nella prospettiva di una secessione. Ma, Tigrai a parte, molte altre zone dell’Etiopia sono in ebollizione. E non da oggi.
Il caso forse più evidente è quello degli Oromo. Lo stesso Abiy Ahmed, di etnia oromo, è arrivato al potere sulla scia di una lunga serie di dure proteste di cui si è reso protagonista questo popolo e che Addis Abeba ha cercato di soffocare nel sangue e con la galera. Il motivo è antico: benché gruppo maggioritario, gli Oromo sono sempre rimasti fuori dalle principali leve del potere. Un marginalizzazione che ha sviluppato, in diversi casi, prese di posizione indipendentiste e che comunque ha seminato un malessere generale pronto ad esplodere. Come è accaduto, appunto, nel 2016 quando le proteste, nate anche dalla confisca di numerose terre per l’ampliamento dell’area metropolitana di Addis Abeba, sono sfociate in una autentica rivolta contro lo strapotere dei tigrini del Tplf nel governo centrale, con migliaia di morti, una massa infinita di arresti e la proclamazione di uno stato d’emergenza pressoché permanente nel paese. Una tregua si è avuta dopo che Abiy, primo oromo nella storia dell’Eritrea, è salito alla guida del governo. Ma la luna di miele è stata di breve durata: gli Oromo – a partire da diversi leader rientrati da anni di esilio – contestano ad Abiy di essere venuto meno agli impegni, tradendo le speranze che aveva sollevato. Sono così riprese le proteste, la repressione, le carcerazioni, la soppressione di media indipendenti. E le uccisioni misteriose, come quella, nel giugno scorso ad Addis Abeba, di Hachalu Hundessa, un musicista amatissimo, in prima linea nella lotta per i diritti degli Oromo.
Meno in primo piano è l’Ogaden, la regione somala del sud-est annessa all’Etiopia da Menelik II nel 1897 e per la quale sono state combattute due sanguinose guerre contro la Somalia, nel 1964 e nel 1977. La fine di questo secondo conflitto, in realtà, non ha mai portato alla pace. Le aspirazioni autonomiste della popolazione, in maggioranza di etnia somala e religione islamica, si sono scontrate con il duro accentramento dettato dal governo di Addis Abeba. Un pugno di ferro dovuto anche alla volontà di tenere sotto controllo i ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale della regione, ma che ha finito per alimentare decenni di guerriglia, condotta dal movimento di resistenza guidato dal Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden (Onlf). La svolta si è avuta nell’ottobre del 2018 quando, sulla scia delle riforme avviate da Abiy, deposto e arrestato il governatore regionale a cui vengono attribuiti crimini contro l’umanità, l’Onlf ha accettato di firmare un accordo di pace con Addis Abeba. Passati i primi mesi di grandi speranze, anche nella regione somala, tuttavia, ha cominciato a spirare un’aria di delusione e sospetto: il timore è che ancora una volta l’aspirazione di sempre a una forte autonomia venga sacrificata a una nuova politica di accentramento, magari meno dura di quella esercitata dal Tpfl, ma pur sempre di accentramento. Un motivo di allarme è venuto anche dalla guerra in Tigrai. “Non abbiamo nessun motivo di simpatia per il Tpfl, che ci ha perseguitato per anni oltre ogni immaginazione, ma ci preoccupa un governo che non esita ad usare la forza contro i suoi oppositori. Un sistema di violenza non giova a nessuno, meno che mai ai Somali”, ha scritto Juweria Ali, etiope-somalo ricercatore dell’università di Birmingham, autore tra l’altro della denuncia di una misteriosa malattia a cui si imputano non meno di duemila morti, dal 2014 a oggi, tra gli abitanti di alcuni villaggi somali vicini a impianti di sfruttamento del petrolio e del gas naturale dati in concessione da Addis Abeba, senza alcuna garanzia di tutela ambientale, a una compagnia cinese.
Accanto a questi due conflitti se ne registrano altri, più localizzati ma spesso di estrema violenza, che coinvolgono varie etnie. Non a caso si stima che ci siano in Etiopia circa 1,2 milioni di sfollati interni. Nel nord della regione amarica, ad esempio, si trascina da anni un duro contrasto tra gli Ahmara, l’etnia prevalente, e il piccolo gruppo dei Qemant (meno di 180 mila persone) per una serie di questioni territoriali. E’ una disputa “minore” ignorata dai media, ma ha provocato circa 50 mila sfollati. E la guerra in Tigrai la ha rinfocolata, perché gli Ahmara – le cui milizie, fra l’altro, si sono affiancate all’esercito federale nell’attacco contro Macalle, rinnovando antiche rivalità sui confini regionali – sostengono che le rivendicazioni dei Qemant sono sempre state sostenute dal Tplf.
Più a sud, nella regione Benishangul-Gumuz – la zona dove è in via di ultimazione la grande diga sul Nilo – si trascinano contrasti etnici analoghi, che portano talvolta a terribili stragi. L’ultima, con almeno 34 vittime, risale al 14 novembre 2020, quando un gruppo di uomini armati ha assalito un bus, massacrando quasi tutti i passeggeri. Non si è mai chiarita l’identità degli aggressori, ma alcune fonti locali ritengono che si tratti di miliziani Gumuz, nel contesto di una lotta feroce contro altre etnie e, in particolare, gli Ahmara. Una strage simile, con un numero di vittime ancora maggiore, è stata compiuta meno di due settimane prima, nel West Wollega, Oromia, dove nella provincia di Gulliso sono stati massacrati a freddo 54 civili, donne e uomini. Anche in questo caso sono stati presi di mira gli Ahmara: ad ucciderli – approfittando del fatto che il presidio territoriale dell’esercito federale era stato trasferito – sarebbero stati membri dell’Oromo Liberation Army (Ola: un gruppo armato nato dal Fronte di Liberazione Oromo), che accusa le forze governative di sequestri, arresti arbitrari, omicidi extragiudiziali.
Violenze e non di rado scontri sanguinosi – dovuti a controversie territoriali o per l’accesso all’acqua, ai pascoli, ai terreni coltivabili, alle risorse naturali in genere – si registrano anche in diverse zone dell’Ogaden, la regione somala, specie nelle aree di confine. Nel nord est, alla frontiera con la zona Afar, l’area contesa si trova a cavallo delle strade su cui passa il traffico commerciale verso Gibuti e il fiume Awasa. E’ una crisi che va avanti da anni e che, secondo un rapporto dell’Onu del gennaio 2020, ha costretto a sfollare più di 125 mila persone: 50 mila nel versante Afar e 78 mila in quello somalo. Uno degli ultimi scontri armati si è registrato nell’ottobre 2020, con numerose vittime. Altri 160 mila sfollati, concentrati in 34 campi di accoglienza, sono segnalati dall’Onu al confine ovest, verso l’Oromia. Vengono da diverse situazioni di crisi: quella esplosa nel 2018 tra fazioni somale e l’antica rivalità tra le comunità Jarso (circa 120 mila, di etnia oromo) e Gerri. Ancora più numerosi, oltre 300 mila, i profughi più a sud, ma sempre alla frontiera con l’Oromia, per le annose tensioni legate ai pascoli, all’acqua e alle colture, tra il clan di pastori somali dei Garre e il gruppo oromo dei Borana. Identiche le cause degli scontri che, al confine tra la regione delle Nazioni del Sud e l’Oromia, vedono contrapposti i Gedeo e gli Oromo della zona di West Guji, con l’accusa reciproca di tentare di annettersi terre e risorse.
Le violenze maggiori, tuttavia, restano quelle legate a motivi etnico-politici anche nella regione delle Nazioni del Sud. Il 10 agosto, a Wolaita Sodo, una città di 200 mila abitanti, le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 17 persone durante una manifestazione di protesta per l’arresto di un esponente politico impegnato nella lotta per l’autonomia. Ancora più pesante la strage registrata tre mesi dopo, tra il 18 e il 21 ottobre, nella provincia di Bench, dove un misterioso gruppo di miliziani ha preso d’assalto l’area di Gura Farda (poco più di 70 chilometri dal confine con il Sudan), incendiando case, fattorie, negozi. Alla fine sono rimasti uccisi 31 uomini e donne: quasi tutti, secondo i giornali locali, di etnia Ahmara.
C’è davvero da chiedersi allora, tornando al punto iniziale, come tenere insieme l’enorme, bellicoso mosaico etiopico, composto di 84 etnie. In particolare per il focolaio acceso in Tigrai e quelli mai sopiti dell’Oromia e dell’Ogaden. Dalla seconda metà del 1800 con Menelik II fino al 1991 (quando è stata abbattuta la dittatura del Derg del generale Mengistu Haile Mariam), incluso il lunghissimo regno di Hailé Selassié, la gestione di questa irrequieta galassia si è basata su un forte accentramento, non esitando a usare il “pugno di ferro”. Sconfitto Mengistu, si è voltata pagina. La costituzione varata nel 1994, dopo tre anni di governo provvisorio, ha introdotto una forma di federalismo etnico, basato su nove (ora diventati dieci) stati regionali politicamente autonomi e fortemente caratterizzati etnicamente, oltre a due città autonome, Addis Abeba e Dire Daua. Si è caratterizzato per una suddivisione etnica anche il partito guida, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (Eprfd), nel quale sono confluiti, mantenendo ciascuno la propria autonomia, i partiti nati dai movimenti etnico-regionali di resistenza contro Mengistu: il Fronte popolare di liberazione del Tigré, il Movimento democratico nazionale ahmara, l’Organizzazione democratica del popolo oromo, il Movimento democratico dei popoli del Sud. In concreto, tuttavia, il potere si è accentrato sul Tplf, a favore della componente tigrina in tutti i posti chiave e con una politica che ha vanificato il progetto federale previsto dalla costituzione. Di pari passo con il radicarsi del potere tigrino sono cresciuti malessere e malcontento, fino a sfociare anche in movimenti di opposizione pronti a ricorrere alla lotta armata, specie in Oromia e nell’Ogaden. La risposta è stata una repressione spesso feroce.
L’avvento di Abiy Ahmed alla guida del paese – con la serie di riforme annunciate, la liberazione dei prigionieri politici, l’invito agli esuli a rientrare, il dialogo aperto anche con i movimenti di resistenza più duri – ha rilanciato l’aspettativa di un’Etiopia federale, più libera e democratica. Ora si tratta di vedere quale strada verrà imboccata: se sarà data concretezza al federalismo etnico o se invece si confermerà una volontà di accentramento. I segnali in questa seconda direzione non mancano: la creazione da parte di Abiy del nuovo Partito della Prosperità (Pp) che – concepito su scala nazionale, senza tener conto delle differenze etnico-regionali – ha posto fine all’Eprfd; la freddezza con cui è stato accolto il risultato delle elezioni che nel giugno 2020 hanno sancito la nascita del nuovo stato regionale del Sidama; e, infine, la guerra contro il Tigrai, l’unico stato che ha “respinto” il Pp. Per questo molti “federalisti” sono in allarme. Di contro si potrebbe obiettare che comunque anche il federalismo etnico “non ha superato l’esame”. La risposta giusta, forse, è quella data da un profugo di famiglia mista etiope-eritrea, esule in Italia: “L’accentramento crea sempre grossi contrasti in una realtà come la nostra. L’Eritrea si è staccata dall’Etiopia, a costo di una guerra lunghissima, quando Haile Selassie ha tentato di soffocarne l’autonomia. Non vedo altra strada che il federalismo etnico-regionale. Non è vero che questa formula sia fallita. La verità è che non è mai stata messa in pratica”.
Nota:
Fonte per la consistenza delle etnie: Enciclopedia Britannica

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