Strage di Lampedusa. Prime condanne, ma non basta: ora occorre indagare sui soccorsi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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10 dicembre 2020
All’alba del 3 ottobre 2013 centinaia di profughi – 368, quasi tutti eritrei – sono morti nel naufragio di un barcone nelle acque di Lampedusa. La spiaggia dei Conigli, la salvezza, era ad appena 800 metri. La tragedia si è compiuta poco dopo che un grosso peschereccio, l’Aristeus, aveva avvistato quella carretta carica di umanità, ma non si era fermato. I superstiti ricordano di averlo visto benissimo, mentre manovrava a breve distanza, e di aver cercato invano di attirarne l’attenzione. Ecco, ora, sette anni dopo, l’equipaggio di quel peschereccio è stato condannato: sei anni di reclusione per il comandante, quattro per ciascun membro dell’equipaggio. Il Tribunale di Agrigento li ritiene tutti responsabili di omissione di soccorso: quella strage – la più grave registrata fino ad allora sulla rotta dei profughi Libia-Italia – si sarebbe potuta evitare o, se non altro, probabilmente le vittime sarebbero state molte di meno.
E’ passato tanto tempo da quell’alba grigia. Ma questo processo è una pietra miliare. Intanto perché ha cominciato a fare chiarezza su quanto è accaduto, ricostruendo i fatti punto per punto. Quel barcone, partito da Misurata, era in navigazione da almeno due giorni. Stracarico. La gente era ammassata ovunque, al punto di non potersi neanche muovere. Specie negli spazi sottocoperta, destinati in gran parte alle donne e ai bambini, i soggetti più deboli. E le vittime, al momento del naufragio, saranno particolarmente numerose proprio tra questi. A furia di arrancare, miglio dopo miglio, sono arrivati in vista dell’isola. Nessuno, a quanto pare, li ha avvistati durante la navigazione. Ma ce l’avevano quasi fatta. Anche contro il muro di indifferenza e sospetto alzato dalle “regole” dettate all’epoca dal Governo italiano per scoraggiare il flusso dei migranti verso le nostre coste. Quando hanno visto avvicinarsi sempre di più le luci di Lampedusa gli si è aperto il cuore. Finalmente… Anche se la “carretta” imbarcava acqua e faceva sempre più fatica ad andare avanti. Poi hanno visto l’Aristeus. Forse neanche immaginavano di essere così vicini alla riva. Però quel peschereccio sembrava che a sua volta li avesse visti e che si stesse avvicinando per aiutarli. Invece, poco dopo, ha puntato verso il largo. Allora hanno pensato di attirarne l’attenzione accendendo un telo intriso di carburante. Ma, mentre il peschereccio continuava ad allontanarsi, le fiamme hanno innescato un incendio a bordo. Molti, impauriti, hanno cercato d’istinto di spostarsi sul lato opposto e l’assetto dello scafo, già molto precario per il sovraccarico, è saltato: il barcone si è rovesciato ed è stata strage.
La sentenza di Agrigento, ora, stabilisce una prima responsabilità: quella dell’unità che, poco prima del naufragio, si è trovata più vicina a quel barcone in evidente difficoltà, ma non è intervenuta. Tuttavia c’è molto altro da indagare. E’ con questo spirito che l’associazione Progetto Diritti (affiancata dal Comitato Nuovi Desaparecidos e dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) ha partecipato al processo come parte civile, con gli avvocati Giuseppe Nicoletti e Gaetano Pasqualino. Lo stesso vale per l’associazione Ghandi, anch’essa parte civile, assistita da Alessandra Ballerini. “C’è molto altro da indagare” perché la causa e le fasi del naufragio sono soltanto un aspetto della tragedia. Occorre ricostruire con precisione tutto quello che è accaduto dopo: dal momento in cui alcuni pescatori hanno visto i primi naufraghi in poi, fino a quando l’ultimo superstite è stato portato a terra ed è cominciata l’interminabile conta dei morti: la lunga fila di bare che ha scosso la coscienza del mondo intero.
Si tratta, in una parola, di capire come sono stati condotti i soccorsi. Se c’è stata una cabina di regia, se è subito scattato un coordinamento efficace, mobilitando tutte le unità istituzionali disponibili nel porto di Lampedusa: le numerose motovedette e il naviglio minore della Guardia Costiera, della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, della polizia e, in aggiunta, eventuali battelli privati che, in occasioni così gravi, le autorità possono, anzi, devono precettare e mobilitare. Stando alle cronache, questa generale mobilitazione e questo coordinamento non sembrerebbe che ci siano stati. Non in maniera tempestiva ed efficace, comunque. I soccorsi immediati e più consistenti sono venuti da barche private, che si trovavano casualmente nelle vicinanze dell’isola e della spiaggia dei Conigli. Eppure è stato subito chiaro, dalle comunicazioni dei primi soccorritori, che la situazione era gravissima, con decine di persone in mare che stavano annegando e gridavano disperatamente nel buio, per essere individuate e salvate. Eppure il porto è a pochi minuti di navigazione dal luogo della tragedia. Eppure era un momento di grande allerta per il continuo arrivo di barche di migranti che galleggiavano appena.
Ecco, tutto questo bisogna chiarire. Perché non è concepibile che 368 vite vengano spezzate di colpo in mare ad appena 800 metri dalla costa. Non basta fermarsi alle responsabilità riconosciute dalla sentenza di Agrigento a carico dell’equipaggio dell’Aristeus. E tra le cose da chiarire – forse tra le prime – c’è anche l’interrogativo se il “clima” creato dalla politica di respingimento adottata dall’Italia e dalla Fortezza Europa nei confronti dei profughi/migranti non abbia influito nel creare un atteggiamento di indifferenza o di “scarico di responsabilità”. Non può essere dimenticato che appena una settimana dopo, l’undici ottobre, sempre nelle acque di Lampedusa, anche se più al largo, si è verificata una tragedia simile: quella, della barca dei profughi siriani abbandonata per ore in balia del mare, fino a che è naufragata, portando a fondo oltre 260 vittime, di cui almeno 60 bambini. Mentre l’Italia e Malta questionavano su chi dovesse intervenire e una nave militare italiana, la Libra, era appena a 10 miglia di distanza dal punto in cui tanta gente stava morendo. E, ancora, non può essere dimenticato che proprio in quegli anni, per aver soccorso barche di migranti in difficoltà, qualche comandante di motopesca è stato incriminato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e il suo battello sequestrato.
Allora, al di là dell’accertamento delle responsabilità personali, processi come questo per la strage di Lampedusa o l’altro, ancora in corso a Roma, per la “strage dei siriani”, servono proprio a questo: a stabilire se non ci siano gravi colpe a monte, se non sotto il profilo giuridico, quanto meno dal punto di vista etico e politico, nelle scelte fatte dal Governo e dalle istituzioni, oltre che nel clima di ostilità e diffidenza contro i profughi/migranti che molto spesso proprio queste scelte contribuiscono a creare o magari assecondano. In contrasto con il diritto internazionale e con la nostra stessa Costituzione.
“La sentenza di Agrigento – ha dichiarato l’avvocato Arturo Salerni, presidente del Comitato Nuovi Desaparecidos – è arrivata alla vigilia del 10 dicembre, la Giornata internazionale dei diritti umani. E’ ovviamente soltanto un caso, ma resta un fatto da sottolineare: questa Giornata ci dice che è sempre più necessario battersi per l’affermazione del diritto alla vita e del dovere di soccorso in mare, troppe volte negati”. E’ una considerazione che suona attualissima: basti pensare che dall’inizio dell’anno a oggi – secondo il terribile censimento curato dal Comitato Nuovi Desaparecidos – sono morti, nel tentativo di raggiungere l’Europa, ben 2.205 esseri umani: 232 lungo le “vie di terra” e 1.973 inghiottiti dal mare, di cui 108 nel Mediterraneo orientale, 852 in quello occidentale o sulla rotta delle Canarie e ben 1.013 nel Mediterraneo centrale, la stessa rotta delle barche della strage di Lampedusa e della strage dei siriani. E intanto i porti italiani continuano a restare chiusi, la Guardia Costiera interviene solo in casi estremi e comunque non oltre le 12 miglia delle acque territoriali, le navi umanitarie delle Ong sono tutte (meno quella della Open Arms) bloccate nei porti da mille cavilli inventati appositamente per renderle non operative. E il massacro continua. Quasi a dire che Lampedusa non ha insegnato nulla.

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