Conversazione con Marina Mastropierro, ricercatrice in Scienze Sociali: Giovani, lavoro e politiche industria

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04 febbraio 2021
Nella riflessione odierna sembra tornato nel dibattito pubblico, il tema dei giovani, delle politiche giovanili e delle opportunità per questi ultimi. Lo stesso programma europeo varato dalle istituzioni comunitarie per mettere il Paese al riparo dalla pandemia, è indirizzato alle “nuove generazioni”, nonostante il ritardo della politica interna verso la categoria in oggetto. Ne parliamo con Marina Mastropierro, ricercatrice in Scienze sociali applicate per conto di varie stakeholder formativi e pubblici.
Ci può spiegare perché nel nostro Paese i giovani fanno fatica a collocarsi in termini di politiche dell’occupazione, e nei propri ambiti di vita sociale?
Una delle risposte, quella che io prendo in considerazione nel mio saggio “Che fine ha fatto il Futuro. Giovani, politiche pubbliche e generazioni”, risiede nel ruolo che le politiche pubbliche hanno svolto negli ultimi decenni. Un ruolo sempre più marginale di promozione delle classi d’età più giovani nei diversi contesti di vita sociale, in particolar modo in quello lavorativo. Nel mio studio ipotizzo che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, dopo lo shock petrolifero del 1973, le politiche pubbliche cominciano a invertire la tendenza dell’investimento verso il futuro che, secondo la sociologia dei processi generazionali, è rappresentato dalle coorti d’età più giovani. Ci sono studi internazionali che ben descrivono questo movimento delle politiche pubbliche: si pensi al contributo fornito già all’inizio degli anni Ottanta dal demografo americano Samuel Preston (Children and the elderly: Divergent paths for America’s dependents, 1984) che illustra ampiamente quanto a partire dalla fine degli anni Settanta la quota di trasferimenti pubblici di assistenza sanitaria per persone a basso reddito (Medicaid) destinata ai bambini passa dal 14,9% nel 1979 all’11,9% nel 1982, nonostante un aumento della percentuale degli aventi diritto. Anche gli aiuti alle famiglie con bambini (programma AFCD) vengono drasticamente tagliate: nel 1979 circa 72 bambini su 100 degli aventi diritto erano inclusi nel programma, tale quota scende a 52 (su 100) nel 1982. Nel frattempo in quegli stessi anni aumentano le spese di assistenza sanitaria per anziani (Medicare) passando da 3,4 miliardi di dollari nel 1967 a 57,4 miliardi di dollari nel 1983, con una previsione nel 1988 di 112 miliardi di dollari. L’ufficio di gestione e bilancio stima, in quegli anni, che la frazione di sussidi diretti agli anziani passa da 44 miliardi di dollari nel 1971 a 217 miliardi di dollari nel 1983, circa 7.700 dollari pro capite. Il totale delle spese governative destinate al programma rivolto ai bambini “AFCD”, che comprende nutrizione, salute ed educazione, è di 36 miliardi di dollari, circa un sesto delle spese destinate agli anziani. Tra il 1960 e il 1982 in America si è assistito al declino del 7% del tasso di fecondità della popolazione, tale da provocare una riduzione del 28% dei ragazzi sotto i 15 anni sul totale della popolazione. D’’altro canto il numero della popolazione dai 65 anni in su è cresciuto negli stessi anni del 54%. A fronte di ciò ci si sarebbe aspettati di avere migliori condizioni di vita per un minor numero di giovani e bambini, ma così non è stato. A dispetto di ogni legge malthusiana, la tesi di Preston è che si sono verificate opposte tendenze nelle relative condizioni di benessere dei due gruppi d’età richiamati e che i fattori demografici non solo hanno sbagliato a prevedere questo risultato ma lo hanno in qualche modo incoraggiato. Il cambiamento demografico è stato dunque intimamente coinvolto in questi sviluppi.
I maggiori investimenti sull’industria delle salute rivolta agli anziani ha provocato non solo una diminuzione di quelli in istruzione, ma anche che si delegasse alla famiglia il ruolo di cura e crescita delle giovani generazioni. In questo studio si intravede quanto la funzione delle politiche pubbliche sia di rilevante importanza nel determinare le condizioni economiche e sociali delle classi d’età presenti in un determinato momento storico. Tale concetto viene sviluppato egregiamente dal demografo e sociologo francese Louis Chauvel in quello che resta un celebre studio, anch’esso mai tradotto in Italia, dal titolo “Le destin des générations. Structure sociale et cohortes en France au XX siécle” (1998). Chauvel sviluppa la tesi di Preston raffinando l’analisi. Egli associa a ogni coorte d’età una determinata struttura sociale sostenendo che ognuna delle prime esprime un proprio sistema di rappresentazione della realtà, ivi compreso il modo in cui ogni coorte d’età si relaziona al lavoro. In questo studio viene ben messa a fuoco la relazione tra politiche pubbliche e i destini generazionali. Prendendo come riferimento tre coorti di giovani francesi: quella nata negli anni Venti, quella nata negli anni Quaranta e quella nata negli anni Sessanta, Chauvel ne descrive condizioni di vita e benessere in differenti ambiti sociali: accesso ai consumi, salute, lavoro, ricchezza, etc. Studiando la “seconda rivoluzione francese”, quella che interessa l’arco 1965-1984, Chauvel dimostra, attraverso dei diagrammi di Lexis, come le scelte di azione pubblica compiute dalla classe politica del tempo (prima fra tutte la legge sull’istruzione obbligatoria sino al 16 anni del 1959) abbiano impresso un cambiamento nella struttura sociale che prende il nome di moyennisation, vale dire accesso alle condizioni di vita borghese e di ceto medio per una parte consistente dei figli di coloro che appartenevano alla parte più bassa della distribuzione sociale. Le politiche pubbliche agiscono sulla struttura sociale di una generazione quando chiamano in causa anche le sue basi socio-economiche, si diceva un tempo la collocazione di classe. La loi du progrés générational, cioè quella secondo la quale le condizioni di vita e benessere delle giovani generazioni superano quelle dei propri genitori, si infrange per le coorti d’età nate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Il cambiamento della struttura socio-economica globale - saturazione dei mercati interni; ricerca di nuovi in paesi dove la forza lavoro costa meno; aumento della disoccupazione; aumento del debito pubblico; sprechi nella spesa sociale; diminuzione dei tassi di natalità; etc – non è accompagnato da politiche pubbliche orientate a investire sul futuro, in particolar modo su giovani e donne. Questa direzione delle politiche pubbliche risulta ben visibile nella sua drammaticità in Italia, paese nel quale il welfare in quegli anni è fortemente impegnato in un disegno di conservazione dell’esistente. Per un maggiore approfondimento del quadro italiano rimando al testo “Che fine ha fatto il futuro”. Quindi per rispondere alla domanda iniziale: vi è secondo i miei studi una responsabilità delle politiche pubbliche messe in campo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta anche nel nostro Paese se i giovani italiani hanno accumulato così tanto ritardo rispetto alle generazioni precedenti e ai loro coetanei europei.
A suo avviso, quali politiche industriali servono per ovviare a questo difficile scenario?
Non sono un’esperta di politiche industriali, o meglio mi ci sto approcciando negli ultimi mesi, ma secondo quelli che sono i miei studi si dovrebbe iniziare a capire che interventi sporadici sui giovani servono a ben poco. Le politiche di empowerment messe in campo sinora, anche nei contesti regionali più virtuosi, penso al caso della Regione Puglia dalla quale provengo, non generano dei cambiamenti strutturali se non sono accompagnati da investimenti sistemici sulle giovani generazioni. Attivare a che serve se non si hanno risorse sufficienti a portare avanti un programma completo e strutturato di investimenti pubblici sulle giovani generazioni? Dai risultati della ricerca che ho condotto il più delle volte un’attivazione fine a se stessa non fa che aumentare frustrazione nei giovani perché, una volta finiti i contributi pubblici, si torna al punto di partenza. E vi assicuro che certi punti di partenza sono davvero drammatici perché quando sei un giovane skillato che ha potenziato la sua capacità aspirazionale, per citare Appadurai, nel corso degli anni e il mercato del lavoro ti respinge, invece che accoglierti, gli effetti si vedono non solo sul piano statistico ma soprattutto su quello psicologico. E questa erosione delle potenzialità di innovazione delle giovani generazioni ha effetti sociali oltre che individuali, inficia la qualità di vita di un Paese e di una democrazia.
Sarebbe importante che la politica interrogasse questi processi e sfogliasse queste biografie. Io credo che in questo Governo sia presente questa sensibilità. A esempio l’esperienza del Prodi bis e l’istituzione del Ministero per le politiche giovanili (Pogas) nel 2006 ha avuto sicuramente il merito di sollevare il problema e di istituire un Fondo nazionale per le politiche giovanili, ma sembra essere stata un’occasione mancata perché non si è riusciti a costruire un tessuto connettivo e una logica di sistema capaci di armonizzare le buone pratiche presenti in Italia e di promuovere un modello di politiche giovanili efficaci su scala nazionale.
Per esperienza e per quelle che sono le conoscenze che ho a disposizione penso che se non si agisce sui fattori che abbassano il livello di disuguaglianze all’interno della stessa generazione - come scuola, accesso al lavoro, alla mobilità, alla casa, alla formazione continua - sarà molto difficile produrre sviluppo e ridurre i ritardi dei giovani italiani che si vedono in tutta la loro evidente drammaticità nel drastico calo dei tassi di natalità, oltre che nei tassi di occupazione giovanile e femminile, specie al Sud.
Se l’innovazione non diventa un fattore strategico sul quale investire a livello sistemico, e parlo di investimenti in formazione, in ricerca e sviluppo, in lavori di qualità che stimolino la produttività su una via alta, difficilmente potremo uscire da una situazione di stagnazione e alti livelli di disoccupazione giovanile. Bisognerebbe che la mano pubblica mettesse in relazione Università e Centri di Ricerca con le piccole e medie imprese presenti in Italia per promuovere nuove architetture istituzionali, su più livelli – nazionale, regionale, locale, sovranazionale - in cui pubblico e privato interagiscono per produrre ricchezza, sviluppo e anche interesse pubblico e collettivo. Avere una democrazia sempre più compiuta, dall’ammodernamento della pubblica amministrazione al potenziamento di economie esterne tangibili (infrastrutture e servizi) e intangibili (capacità relazionali, capitale sociale), serve all’intero parco degli attori sociali che siano essi giovani cittadini, che siano essi privati.
Ci descriva la situazione del Sud e il tema dell’immobilità sociale per esempio nelle aree interne?
La situazione al Sud è drammatica, ci sono zone nelle quali il tasso di disoccupazione giovanile supera il 40% e adesso con la crisi pandemica i tassi sono aumentati. Nelle ultime settimane ho iniziato a occuparmi di una ricerca sui potenziali di sviluppo di Irpinia e Sannio, pertanto non sono ancora nelle condizioni di fornirvi dei dati. Posso solo anticipare che ci sono tassi di disoccupazione giovanile femminile che supera il 60% in alcuni casi, e mi sto tenendo bassa. Con queste cifre dove vogliamo andare? È chiaro che le aree interne si spopolano ancora di più.
Se la povertà non è solo povertà economica ma anche povertà di servizi e di opportunità di vita per i giovani è necessario invertire la tendenza con tutte le forze che si hanno a disposizione. Adesso il piano Next Generation Eu rappresenta un’occasione da non perdere, per nessuna ragione. Bisogna stimolare la progettazione di politiche pubbliche sia a livello nazionale che a livello locale per fare in modo che questi soldi vengano spesi al meglio in investimenti che non riguardano solo la digitalizzazione, ma il potenziamento dei servizi elementari, dove mancano: penso ai trasporti, alla disponibilità di acqua h24 e per tutti i periodi dell’anno per alcune porzioni di territorio delle aree che ho sopra menzionato. Inoltre l’ammodernamento delle pubbliche amministrazioni e la riscrittura di un nuovo patto tra cittadini e Stato che tenga ben presente il diritto all’abitare dei territori, in particolar modo di quegli più svantaggiati, con le stesse prerogative e opportunità riservate a chi vive in una metropoli o in una zona costiera. Penso ai collegamenti, alla possibilità di spostarsi agevolmente da una città all’altra o da una regione all’altra, che nel Sud è un diritto negato. Come si fa a parlare di cittadinanza nazionale se sul Mezzogiorno ci si è dimenticati di investire in servizi di base? L’esperienza della Cassa del Mezzogiorno è partita bene ma poi ha lasciato spazio ad abusi e clientele ed è chiaro che se non si agisce anche sull’immaginario di queste zone, oltre che sull’importanza dell’azione istituzionale e sistemica nell’orientare le politiche pubbliche e, dunque, anche la produttività, difficilmente si potrà cogliere l’occasione di svolta rappresentati da questi 200 miliardi di euro. Scegliere pochi asset strategici, integrati dentro una precisa idea di sviluppo, e su quelli puntare per colmare i deficit di ricchezza e sviluppo sui territori.
Una nuova questione meridionale sta emergendo nel discorso pubblico e le giovani generazioni, così come le donne, sono i primi soggetti sociali a essere colpiti da un ritardo del Mezzogiorno che con la crisi aperta dalla pandemia sta mostrando non solo la sua ampiezza e profondità ma anche le sue possibilità di riscatto. È chiaro che bisogna nominare gli orrori, capire quali sono i problemi, non avere paura di dirsi la verità: credo che le giovani generazioni, se interpellate, possano dare preziosi suggerimenti e anche rendersi protagoniste della costruzione di una nuova classe dirigente e di una pagina importante ed epocale per la storia del nostro Paese.

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