La quarantena imposta alla Open Arms? E’ l’ultimo capitolo della guerra contro le Ong

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
28 febbraio 2021
La Vos Triton, un rimorchiatore d’appoggio a servizio della piattaforma petrolifera Total, al largo di Zuwara, il 24 febbraio ha sbarcato a Porto Empedocle i 77 migranti tratti in salvo da un gommone affondato a qualche decina di miglia dalla Libia e l’unico cadavere recuperato dei 41 naufraghi dispersi. Dov’è adesso la nave? Vista la prassi adottata spesso nell’ultimo anno, verrebbe da pensare che sia ferma in rada per un periodo di quarantena. Invece no. Dopo meno di 24 ore la Vos Triton ha ripreso il mare, tornando nelle acque dove “lavora” abitualmente: secondo l’osservatorio Vesselfinder, la sera del 25 febbraio era già arrivata a breve distanza dalla costa libica, tra Sabratha e Zuwara. La Asso 30, una delle navi appoggio della piattaforma offshore dell’Eni in Libia, di naufraghi ne ha portati in Sicilia più di 200. Per l’esattezza, 230, recuperati su due gommoni in difficoltà insieme alla nave gemella Asso 29: tutti profughi o migranti subsahariani che, costretti da mille problemi o forme di violenza ad abbandonare il proprio paese e finiti poi nell’inferno della Libia, erano riusciti a venirne fuori affidando la propria vita al fragile battello di un trafficante. Anche questi sono stati sbarcati a Porto Empedocle, dove una quarantina sono risultati positivi al tampone coronavirus. In questo caso, sembrerebbe scontato: nave “confinata” in quarantena con tutto l’equipaggio. Nient’affatto. Anche la Asso 30 è ripartita dopo circa 24 ore e, sempre il 26 febbraio, intorno alle nove del mattino, Vesselfinder la segnalava poco al largo tra Zuwara e Tripoli, grossomodo all’altezza di Sabratha.

La Open Arms, la nave umanitaria della Ong spagnola, il 15 febbraio ha portato in salvo, sempre a Porto Empedocle, 146 naufraghi, tutti migranti subsahariani fuggiti dalla Libia. Nessuno di loro è risultato positivo al covid. Subito dopo lo sbarco, però, l’intero equipaggio è stato bloccato a bordo, in quarantena, fino al 3 marzo. Proprio nella stessa rada dove, nei giorni successivi, ha visto arrivare e ripartire nel giro di poche ore la Vos Triton e la Asso 30. La contraddizione è palese. Non perché non sia stato giusto ed anzi doveroso concedere il nulla osta a riprendere la navigazione alle due navi commerciali. Al contrario: bloccare per un minimo di due settimane le unità che salvano naufraghi in mare provoca danni economici enormi e rischia dunque di indurre armatori e comandanti a “voltarsi dall’altra parte” quando incrociano le vittime di un naufragio. Proprio per questo la “legge del mare” prevede che le persone tratte in salvo siano trasferite nel più vicino porto sicuro e che le operazioni di sbarco si svolgano nel più breve tempo possibile. Il punto è che lo stesso criterio non è stato seguito per la Open Arms, così come è più volte accaduto nell’ultimo anno per altre navi “umanitarie” delle Ong.

Come si spiega? La decisione è stata presa dall’Ufficio di sanità marittima (Usmaf) della Sicilia, una struttura che dipende direttamente dal ministero della salute guidato da Roberto Speranza. “Abbiamo applicato – hanno spiegato all’Usmaf, come scrive Il Manifesto – l’articolo 8 lettera B del Dpcm 14 gennaio 2021, che riguarda le persone, anche asintomatiche, che sono transitate o hanno soggiornato nei paesi considerati più a rischio covid”. Tra questi c’è anche la Libia. Chiarissimo. Ma perché allora lo stesso criterio non è stato applicato per le navi dell’Eni e della Total? Forse proprio perché sono dell’Eni e della Total e non di una Ong? La spiegazione data è che, sempre in base al decreto del gennaio 2021, “equipaggio e personale viaggiante” sono esentati. Solo che è la classica “toppa peggiore del buco”. Perché nel caso della Open Arms esattamente di un intero equipaggio si tratta. Di più: l’equipaggio di una nave che, proprio per la funzione che svolge, ha a bordo un servizio sanitario di prim’ordine, assicurato da una equipe medica di Emergency, che adotta criteri e misure preventive molto rigide, con l’uso non solo di mascherine Ffp2, il tipo più efficace, ma anche di visiere e tute di biocontenimento per evitare al massimo contatti a rischio con le persone tratte in salvo. In sostanza, lo stesso protocollo e lo stesso “modus operandi” previsti negli ospedali. E va da sé che tutto questo non è nemmeno lontanamente ipotizzabile che ci sia anche sulla Vos Triton e la Asso 30. .Alle quali, però, non è stata prescritta neanche un’ora di quarantena.

Viene da pensare, allora, che anche questo blocco della Open Arms sia uno dei tanti ostacoli che ormai da tempo – specie dal 2017 in poi, prima con il ministro Marco Minniti al Viminale e poi, senza interruzione di continuità, con Matteo Salvini e Luciana Lamorgese – il governo italiano crea alle Ong impegnate nei salvataggi sulla “rotta migratoria” del Mediterraneo centrale, la più mortale al mondo, che solo nei primi due mesi di quest’anno conta già 177 vittime, in aggiunta alle oltre 14 mila registrate nei sei anni tra il 2015 e il 2020, con la media spaventosa di 2.343 ogni dodici mesi.

Ostacoli alle Ong costruiti su cavilli, contestazioni e pastoie amministrative incomprensibili, se ne possono citare in abbondanza. In pratica non c’è una sola nave umanitaria che non abbia dovuto subirli. La Sea Watch 3 tedesca, ad esempio, è stata costretta a rimanere inattiva addirittura dal luglio scorso per un fermo amministrativo giustificato con presunte “irregolarità di natura tecnica e operativa tali da compromettere la sicurezza dell’equipaggio ma anche delle persone eventualmente recuperate a bordo”. Eppure la nave aveva tanto di “certificazione di sicurezza”. In ogni caso ha sfruttato tutti questi mesi per migliorare assetti e attrezzature nel porto spagnolo di Burriana ed ora è in possesso di una nuova certificazione. Ma non è detto che basti. La Mare Jonio, della Ong Mediterranea, figurava nel Registro Navale, come nave adibita al salvataggio, ma neanche questo attestato la ha salvata da un fermo lo scorso ottobre. Ad un’altra nave Ong, nei mesi passati, si sarebbe arrivati a contestare che i servizi igienici non erano sufficienti per le persone prese a bordo. In un altro caso si sarebbe eccepito che c’era una dotazione di troppi – si badi: troppi, non pochi – giubbotti di salvataggio o che i “passeggeri” imbarcati erano in numero superiore al consentito, dimenticando che non di “passeggeri” si trattava ma di naufraghi, presi a bordo per salvargli la vita, come impone la legge del mare, senza alcun limite tranne quello di non compromettere l’assetto e la sicurezza della nave stessa e dell’equipaggio. E via di questo passo, fino a prolungare per giorni la permanenza in mare aperto, anche in condizioni meteo piuttosto difficili, in attesa dell’indicazione del “porto sicuro di approdo”, con il pretesto, assolutamente infondato, che sarebbe spettato allo “Stato di bandiera” della nave occuparsi della destinazione del naufraghi salvati. E ogni volta si è trovato un ministro, un funzionario o un comandante di porto disposto a metterci la firma.

Il blocco della Open Arms, allora, ha tutta l’aria di essere non un “fermo per quarantena” ma un fermo “politico”, nel solco di una strategia ormai consolidata, volta a contrastare con ogni mezzo ed ogni pretesto la “flotta civile” delle Ong. Perché? Molto probabilmente perché le navi umanitarie, oltre a salvare migliaia di vite in mare, raccontano tutto ciò che vedono e ascoltano nel Mediterraneo centrale, in contrasto con quel “silenziamento”, quanto più stretto possibile, che è un capitolo fondamentale della politica di respingimento e di esternalizzazione delle frontiere adottata dall’Italia e dalle Ue negli ultimi vent’anni. Ecco, è questa, probabilmente, la “colpa” più grave delle Ong: testimoniare e dare voce ai disperati che bussano alle porte della Fortezza Europa. Perché è essenziale, per la “politica dei muri” scelta da Roma come da Bruxelles, non far sapere a quale sorte sono condannati tutti coloro che restano al di là di questi muri. Poco importa se muoiono o finiscono in un lager. L’importante è che non si sappia. E non scuota le coscienze.

Coordinatore del Comitato Nuovi Desaparecidos

Leggi anche