Sempre più barriere per bloccare profughi e migranti. Anche quelli in fuga dagli orrori del Tigrai

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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28 marzo 2021

Dal Tigrai, sconvolto da quella che appare sempre di più una guerra di sterminio, sono già fuggiti in Sudan circa 75 mila profughi: l’1,26 per cento della popolazione. Non solo. Ci sono oltre due milioni di sfollati interni, un terzo di tutti i tigrini: donne, bambini, uomini, intere famiglie costrette ad abbandonare la propria casa per cercare di mettersi in salvo, ma che ora non hanno di che vivere. Molti sono alla fame: secondo diversi rapporti medici, specie i bambini presentano sintomi evidenti di denutrizione. Va da sé che, se ne avranno l’occasione, anche tanti, tantissimi di questi sfollati tenteranno di raggiungere il Sudan, l’unico paese confinante che li può accogliere, visto il ruolo svolto dall’Eritrea in questo conflitto, fianco a fianco con Addis Abeba. E Khartoum ha già ammonito la comunità internazionale di non essere in grado di reggere un flusso così vasto, specie se – come tutto lascia credere – la guerra andrà avanti ancora a lungo, innescando magari conflitti e scontri in altri stati del Corno d’Africa, tanto da sconvolgerne alla radice gli attuali equilibri: le tensioni crescenti tra Somalia e Kenya sono un segnale eloquente.

Ne consegue che il Sudan (che già ospita peraltro centinaia di migliaia di rifugiati) rischia di diventare la prima tappa di un’altra enorme via di fuga che in massima parte – come in altre crisi del passato – si fermerà sicuramente in Africa, ma che in una certa percentuale proseguirà verso nord, fino alle sponde del Mediterraneo, per puntare poi sull’Italia e l’Europa o il Nord del mondo in generale. Ma qual è oggi e come si profila per il futuro la “risposta” di Roma e Bruxelles di fronte a quella che è già una evidente catastrofe umanitaria? La solita: muri e barriere per impedire che questi profughi arrivino. Per fare in modo, anzi, che neanche riescano a imbarcarsi. A prescindere dalla sorte a cui saranno condannati, qualunque essa sia, i disperati “lasciati al di là”, fuori dalla fortezza costruita negli ultimi vent’anni.

Le premesse di questa scelta europea (e in particolare italiana) ci sono tutte. Lo conferma l’intensificarsi degli incontri tra il governo di Roma e il nuovo esecutivo provvisorio di Tripoli, incentrati in buona parte sulla “necessità” di fermare i migranti. Proprio il blocco delle partenze via mare, infatti, è stata una delle richieste su cui ha insistito il ministro degli esteri Luigi Di Maio anche negli ultimi due viaggi a Tripoli. E la responsabile del Viminale, la ministra Luciana Lamorgese, per parte sua, lo ha appena ribadito in una lunga intervista rilasciata a Repubblica: “L’Unione Europea – ha detto in estrema sintesi – deve fermare gli sbarchi dalla Libia”. A questo mira evidentemente il nuovo patto in cantiere con la Libia sui migranti. Ignorando totalmente l’ultimo rapporto dell’Onu, che traccia un quadro tanto realista quanto spietato del paese, dove – si afferma – sono la norma torture, stupri, uccisioni, detenzioni arbitrarie, traffico di esseri umani, strapotere di gruppi armati che continuano ad operare senza incontrare ostacoli, con una corruzione politica spaventosa, che avrebbe pesato anche sulla scelta del nuovo premier. E ignorando, ancora, le crisi che continuano a moltiplicarsi in tutta l’Africa. Come quella in Tigrai, appunto. Perché sarà quanto meno difficile negare che chi scappa dal Tigrai sia un profugo a cui spetta sicuramente una forma di tutela internazionale. Ma ecco il punto: le barriere già costruite e quelle in fase di costruzione renderanno pressoché impossibile concederla in Italia e in Europa, questa tutela, perché la gran parte di questi disperati resteranno chiusi fuori dalla “fortezza”, bloccati al di là del muro, in un limbo che impedisce persino di presentarla la richiesta di asilo.

La strage di Axum

E’ un meccanismo ormai sperimentato e che funziona bene. Sulla pelle di migliaia di persone che si vedono negare diritti umani e civili fondamentali, ma funziona. Non si potrà mai dire, tuttavia, che “non si sa perché scappano”: che non si conosce la situazione che, dal Tigrai, li costringe a quella che è innegabilmente una “fuga per la vita”. Nonostante il black out strettissimo imposto da Addis Abeba, a poco a poco sta emergendo chiaramente cosa è accaduto negli ultimi cinque mesi e cosa sta ancora accadendo in Tigrai e in Etiopia. I rapporti dell’Onu, dell’Unhcr, della Croce Rossa sono terrificanti: è impensabile che a Roma e nelle varie cancellerie europee non li conoscano. Per non dire dei dossier di Amnesty, Human Rigths Watch e Medici Senza Frontiere. Valga per tutti il caso della strage di Axum. Finora Addis Abeba la ha sottaciuta o sminuita. Talvolta, anzi, la ha definita una “fake news”. Anche dopo i dettagliati dossier pubblicati prima da Amnesty International e poi da Human Rights Watch. Ed ha sempre negato che in Tigrai ci fossero reparti militari eritrei, ai quali, appunto, sono attribuite gran parte delle responsabilità del massacro. Ora, però, a denunciare l’eccidio, confermandone tutto l’orrore, è la Commissione etiopica per i diritti umani, con un terribile dossier che è, peraltro, solo la parte preliminare di un’inchiesta da portare avanti quanto prima possibile, estesa all’intero Tigrai, in collaborazione con la Commissione delle Nazioni Unite.

Sono pagine che ricalcano quanto era già emerso dalle prime testimonianze rese da persone presenti ad Axum e che sono riuscite a fuggire, mettendosi in salvo. Pagine che sembrano, anzi, la naturale prosecuzione e integrazione di quanto già scritto da Amnesty e Human Rights. Tutti, ad esempio, hanno insistito fin dall’inizio su quanto è accaduto all’interno dell’area sacra della cattedrale di Santa Maria di Sion. Ebbene, ecco quanto si legge nel dossier della Commissione: “Le informazioni raccolte durante la fase preliminare di questa inchiesta confermano che il 28 e il 29 novembre gravi violazioni dei diritti umani sono state commesse ad Axum, dove almeno cento persone tra residenti e visitatori giunti da altre parti del paese in occasione della celebrazione annuale per Axun Sion, oltre che sfollati interni di altre parti del Tigrai, sono state uccise da soldati eritrei. Secondo quanto hanno riferito alcuni residenti o famiglie delle vittime e testimoni oculari, civili inermi sono stati uccisi sotto gli occhi dei figli, delle mogli, delle madri. I soldati eritrei sono andati di porta in porta chiedendo alle donne dove fossero i loro mariti o i loro figli e imponendo di far uscire i loro ragazzi, se li avevano. E poi, dopo averli costretti a uscire di casa cacciandoli per strada, hanno ucciso gli uomini benché non fossero armati. Le famiglie delle vittime e i testimoni oculari sono sicuri che i responsabili siano soldati eritrei: li hanno riconosciuti dall’accento con cui parlavano il tigrino, dalle uniformi e dalle scarpe (i soldati eritrei in genere calzano sandali, spesso di plastica, e non stivaletti militari: ndr) ”.

Scendendo più nei dettagli, emergono episodi raccapriccianti. “Il 28 novembre – ha raccontato un testimone – un uomo, uno degli impiegati della Banca Commerciale dell’Etiopia, è uscito di casa verso le 17 per cercare del cibo, ma quando è arrivato nella zona conosciuta come Abenet Hotel è stato catturato da un gruppo di soldati eritrei, che gli hanno prima sparato a una gamba e poi lo hanno ucciso. In seguito, un carro armato è passato sopra al cadavere, lasciato sulla strada fino all’indomani, schiacciandolo dalla vita in giù e amputandogli le braccia e le gambe”. O altre testimonianze, spesso con nomi e cognomi delle vittime: “Muluberhan Gebremedhin, 38 anni, è stato ucciso davanti ai figli e alla moglie incinta; Mekonnen Temi’a assassinato di fronte ai suoi bambini; Guash Mekonnen, 38 anni, un veterinario, è stato trascinato fuori dalla sua casa e ammazzato davanti al figlio in lacrime; Bitwoded Tadesse Kebede, 51 anni, è stato colpito al collo e al petto e ucciso mentre cercava di prendersi cura dei corpi di altre vittime: non è stato possibile informare la sua famiglia, così è stato sepolto in una fossa comune; a Mulugeta Te’ame hanno sparato tre volte, fino ad ammazzarlo, anche lui mentre cercava di recuperare i cadaveri di altre vittime…”. Non sono stati risparmiati neanche ragazzi giovanissimi: “Mulugeta Fisseha, 14 anni, è stato assassinato mentre correva verso sua madre, Techawit, che era stata appena uccisa da soldati eritrei”. E nessuna pietà per gli anziani: “Un gruppo di soldati eritrei ha fatto irruzione nella casa di Berhane Gebreegziabher Abraha, 70 anni, lo hanno trascinato fuori insieme ai due figli, Shishay e Mekonnen, e, dopo averli costretti a stendersi a terra vicino a un serbatoio dell’acqua, li hanno ammazzati tutti e tre”.

Un’inchiesta internazionale

A ogni pagina si aggiungono orrori su orrori. Senza contare le vittime dei bombardamenti e dei combattimenti o i malati e i feriti morti per mancanza di cure e medicine dopo che l’ospedale è stato saccheggiato più volte e le sue attrezzature razziate o distrutte. E senza tener conto del circondario di Axum, che l’inchiesta della Commissione etiopica per i diritti umani non sembra ancora aver preso in esame ma dove, secondo altri dossier, si conterebbero almeno tante vittime quante nel centro urbano. La Commissione delle Nazioni Unite ha già dichiarato la propria disponibilità a collaborare con quella etiopica. Ma non basta. Questo primo dossier, anzi, è la conferma che occorre una inchiesta molto più vasta e approfondita, condotta da una commissione internazionale, con pieni poteri di indagine. Per assicurare alla giustizia i responsabili, a tutti i livelli, di una tragedia nella quale sembra emergere sempre di più una lunga catena di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

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